Lombra della maledizione
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Da una grande maestra della narrativa fantastica, pi? volte vincitrice del premio Hugo, un potente racconto di mistero, magia e tradimento. Il destino di un cavaliere, della sua stirpe e di un regno tormentato. Provato nel corpo e nello spirito da una lunghissima prigionia, il comandante Lupe dy Cazaril ritorna nel regno di Chalion, in cui aveva servito come paggio, e viene nominato tutore di Royesse, bella e intelligente sorella dell’erede al trono. Ma quell’occasione di riscatto si trasforma presto in un incubo, poich? Cazaril scopre che a corte proprio quegli uomini che lo hanno tradito ora occupano posti di grande potere. E scopre soprattutto che l’intera stirpe di Chalion ? gravata da una terribile maledizione, che non pu? essere annullata se non con la magia pi? nera…
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Il personale addetto al serraglio aveva i suoi alloggi in una metà del piano superiore dell’edificio, l’altra metà del quale era adibita a magazzino per la paglia e il foraggio. Giunto davanti a una porta aperta, da cui la luce di una candela si riversava nel corridoio buio, lo stalliere bussò contro lo stipite.
«Bene», rispose la voce di Umegat. «Ti ringrazio.»
In risposta a un inchino della sua guida, Cazaril oltrepassò la soglia. Si ritrovò in una camera stretta, la cui finestra si affacciava sul cortile delle stalle, ormai immerso nel buio. Tirate le tende a coprire la finestra, Umegat prese ad armeggiare intorno a un rozzo tavolo di legno di pino, coperto da una tovaglia colorata su cui erano posati una caraffa di vino, alcune coppe d’argilla e un piatto di pane e formaggio.
«Vi ringrazio per essere venuto, Lord Cazaril. Per favore, entrate e sedetevi. Grazie, Daris, non ho bisogno di altro», disse, chiudendo la porta.
Nel dirigersi verso la sedia, Cazaril si soffermò a osservare un alto scaffale carico di libri, che raccoglieva opere in ibrano, in darthacano e in roknari, di argomento soprattutto teologico. In particolare, fu attratto da un titolo a lettere dorate su un volume dall’aspetto familiare che si trovava sullo scaffale più alto: Il quintuplice sentiero dell’anima. La rilegatura in cuoio appariva logora per l’uso e il libro, come la maggior parte degli altri, non recava traccia di polvere. Come mai la cosa non mi sorprende? si chiese allora, accomodandosi sulla semplice sedia di legno.
Umegat riempì una coppa di vino rosso e la porse al suo ospite con un sorriso.
«Grazie», disse Cazaril, accettandola con gratitudine e con dita tremanti. «Ne ho bisogno.»
«Posso immaginarlo, mio signore», commentò Umegat, riempiendo una coppa anche per sé e sedendosi di fronte a lui. Il tavolo era di umile fattura, però le coppie di candele di cera che ardevano su di esso proiettavano una luce intensa e limpida… una luce adatta per la lettura.
Accostatosi la coppa alle labbra, Cazaril ne trangugiò il contenuto e, non appena l’ebbe posata sul tavolo, Umegat tornò a riempirla. A titolo di esperimento, Cazaril provò a chiudere gli occhi e poi a riaprirli, ma in entrambi i casi Umegat continuò a risplendere. «Tu sei un Accolita… no, un Divino… giusto?» domandò.
«Sì, dell’Ordine del Bastardo», ammise Umegat, schiarendosi la gola. «Ma non è per questo che sono qui.»
«E allora perché?»
«Ci arriveremo a tempo debito», garantì Umegat, prendendo il coltello sul piatto e procedendo ad affettare il pane e il formaggio.
«Io ho pensato… Ho sperato… Ecco, mi sono chiesto se non fossi stato mandato dagli Dei, per proteggermi e per guidarmi»
«Davvero?» fece Umegat, con un accenno di sorriso. «E io che mi stavo chiedendo se tu non fossi stato inviato dagli Dei per proteggere e guidare me!»
«Oh. Allora… le prospettive non sono molto buone, pare», mormorò Cazaril, accasciandosi un poco sulla sedia e bevendo un altro lungo sorso di vino. «Da quando ti sei accorto di me?»
«Da quel giorno nel serraglio, quando quel corvo della Torre di Fonsa si è praticamente messo a saltellare sulla tua testa, strillando ’È lui! È lui!’ Ammetto che a volte il mio Dio può essere spaventosamente ambiguo, ma quello era un segnale piuttosto difficile da ignorare.»
«Stavo già brillando, allora?»
«No.»
«Quando ho cominciato a… emanare luce?»
«In un momento imprecisato tra l’ultima volta che ti ho visto, cioè ieri pomeriggio, quando sei rientrato allo Zangre, zoppicando come se fossi caduto da cavallo, e stamattina al Tempio. Tu puoi individuare meglio di me qual è stato il momento esatto in cui il fenomeno si è manifestato. Perché non mangi qualcosa? Non hai un bell’aspetto.»
Cazaril non si fece pregare, perché non aveva più toccato cibo dopo il pane col latte e col miele che Betriz gli aveva portato a mezzogiorno.
Umegat attese che il suo ospite avesse la bocca piena di pane e formaggio, prima di riprendere la conversazione. «Prima del mio arrivo a Cardegoss, uno dei miei compiti in qualità di giovane Divino è stato quello di assistente di un Inquisitore del Tempio, nelle indagini su alcune accuse di magia di morte», disse e, mentre Cazaril quasi si strozzava col cibo, proseguì in tono serafico: «O del miracolo di morte, per usare una definizione più accurata dal punto di vista teologico. Abbiamo scoperto una quantità d’ingegnose simulazioni… di solito mediante l’impiego di veleno, anche se certi assassini meno documentati e intelligenti avevano usato metodi più crudi. In quei casi ho dovuto spiegare ai colpevoli che il Bastardo non si abbassa mai a giustiziare un peccatore che rifiuta di pentirsi ricorrendo a un pugnale o a un grosso martello. I veri miracoli sono molto più rari di quanto la loro notorietà possa far supporre, però non mi sono mai imbattuto in un caso autentico in cui la vittima fosse un innocente. Di conseguenza, per usare una definizione ancora più sottile, possiamo dire che il Bastardo concede miracoli di giustizia». La sua voce si era fatta più secca e decisa, perdendo l’abituale tono servile e buona parte del morbido accento roknari.
«Ah», borbottò Cazaril, trangugiando altro vino. Questo è l’uomo più acuto e intelligente che abbia incontrato finora a Cardegoss, pensò. E io l’ho praticamente ignorato per tre mesi soltanto perché indossa la livrea di un servitore. Be’, è anche vero che lui è poco propenso ad attirare su di sé l’attenzione… «Sai… quel tabarro costituisce per te un valido mantello dell’invisibilità», disse poi.
«Infatti», annuì Umegat, bevendo un sorso di vino.
«Dunque… adesso sei un Inquisitore?» chiese allora Cazaril, domandandosi se fosse dunque giunta la fine, se sarebbe stato incriminato, condannato e giustiziato per il suo attentato — fallito — alla vita di Dondo.
«No, non lo sono più.»
«Cosa sei, allora?»
«Sono un santo», spiegò Umegat, con un sorriso nello sguardo.
Attonito, Cazaril lo fissò per un lunghissimo istante, poi svuotò la propria coppa, e Umegat provvide a riempirla ancora. Erano ben poche le certezze di quella notte, ma di sicuro Umegat non era matto e non stava mentendo. «Un santo. Del Bastardo», riassunse.
Umegat annuì.
«Questo… è un lavoro insolito, per un roknari. Com’è successo che…» Era vagamente consapevole della vacuità delle sue domande, ma dopo due coppe di vino bevute a stomaco vuoto, cominciava a sentirsi un po’ stordito.
«A te… posso dire la verità», replicò Umegat, con un sorriso triste. «È trascorso tanto tempo, una vita intera, da farmi supporre che i nomi non abbiano più importanza. Quand’ero un giovane nobile, e vivevo nell’Arcipelago, mi sono innamorato.»
«Succede a tutti giovani nobili, di qualsiasi luogo e anche ai giovani zotici», commentò Cazaril.
«All’epoca il mio amante aveva circa trent’anni, ed era un uomo dalla mente acuta e dal cuore gentile.»
«Ah, capisco. No, questa è una cosa che nell’Arcipelago non si può fare.»
«Infatti. A quell’epoca, non avevo il minimo interesse per la religione, ma, per ragioni ovvie, mi ero segretamente convertito alla fede quintariana. Io e il mio amante avevamo progettato di fuggire insieme, ma soltanto io sono riuscito a raggiungere la nave diretta a Brajar. Per tutto il viaggio ho patito il mal di mare e sono caduto in preda alla disperazione, imparando a pregare, almeno così ho creduto allora. Mi auguravo che lui fosse riuscito a imbarcarsi su un’altra nave, speravo che ci saremmo ritrovati nel porto scelto come nostra destinazione. Dopo più di un anno, sono venuto a sapere, da un mercante roknari che avevamo conosciuto entrambi, qual è stata la sua fine.»
«La solita…»
«Oh, sì. Via i genitali e i pollici, perché non potesse compiere il segno sacro al quinto Dio…» Umegat si toccò la fronte, il ventre, l’inguine e il cuore, ripiegando il pollice sotto il palmo nel gesto proprio della fede quaternariana, che ricusava il quinto dito, quello del Bastardo. «Hanno lasciato la lingua per ultima, nella speranza che potesse tradire altri eretici, ma lui non lo ha fatto. È morto da martire, impiccato.»