City
City читать книгу онлайн
Questo libro narra la storia dell’Uomo e del suo pianeta, la Terra, attraverso i secoli futuri, in una progressione abbagliante di visioni. indimenticabili e poetiche; ? l’opera che moltissimi considerano il momento pi? intensamente poetico di tutta la storia della fantascienza. Con la sua quieta, serena filosofia, con la sua magica capacita di evocare situazioni e paesaggi allo stesso tempo grandiosi e a perfetta,’ misura umana, Simak ci descrive dapprima il graduale abbandono delle citta, per una pi? serena vita nelle campagne; e poi ci accompagna nella descrizione della lenta espansione verso gli spazi cosmici, ci mostra la comparsa dei Mutanti, enigmatici figli della razza umana che di umano conservano solo una spietata, folle ironia, ci descrive il lento passaggio dell’eredita umana ai Cani, fedeli compagni dell’Uomo per millenni, ci parla dei robot che l’uomo ha creato a propria: immagine, e degli alieni che popolano i suoi sogni cosmici. E, attraverso la rivelazione di un nuovo e totalmente inaspettato piano di, esistenza su Giove, il gigantesco pianeta che sar? il nuovo Paradiso… o il nuovo Nirvana?… per tutto il genere umano, Simak si proietta nel buio dei millenni, quando l’intera razza umana sar? ricordata con il nome di una sola famiglia, i Webster, e l’antica casa sulla collina sar? un tempio e un memoriale lentamente dimenticato. E su tutto questo grandioso affresco di figure indimenticabili, gigantesca, si staglia la figura del pi? grande personaggio creato da uno scrittore di fantascienza: Jenkins, il robot antico, che nei suoi circuiti elettronici si aggrappa disperatamente al ricordo dell’umanit? desiderata e perduta.
Внимание! Книга может содержать контент только для совершеннолетних. Для несовершеннолетних чтение данного контента СТРОГО ЗАПРЕЩЕНО! Если в книге присутствует наличие пропаганды ЛГБТ и другого, запрещенного контента - просьба написать на почту [email protected] для удаления материала
Con un tuono rimbombante, uno schianto che riecheggiò tutt’intorno all’orizzonte, un’altra porzione del tetto crollò.
Per quali scopi avrebbe potuto lottare una formica? Per mantenere la sicurezza, e che altro? Per accumulare e mettere da parte, forse… raccogliendo in tutta la Terra anche le ultime briciole di tutto ciò che poteva aver valore, e riponendo ogni cosa in vista di tempi di carestia, pensando al domani. E anche questo, in sé, non era altro che una delle tante sfaccettature del feticcio della sicurezza. Una forma di religione, forse… i simboli di quel piede umano pronto a colpire, che si ergevano sopra ogni formicaio, forse erano stati davvero simboli religiosi. E, ugualmente, simboli di sicurezza. Sicurezza, per l’anima delle formiche. La conquista dello spazio? E forse le formiche avevano conquistato lo spazio, si disse Jenkins. Per una creatura grande come una formica il mondo stesso doveva apparire una galassia vasta e sconfinata. Le formiche avevano conquistato una galassia, senza neppure sospettare che, più oltre, si apriva un’altra galassia infinitamente più grande. E anche la conquista di una galassia poteva apparire come un’altra forma di sicurezza.
Era tutto sbagliato, pensò Jenkins. Lui continuava ad attribuire alle formiche gli stessi processi ragionativi degli esseri umani, e poteva essere tutto diverso, poteva esserci molto di più, nel mondo delle formiche. Nelle menti delle formiche potevano esistere un certo fermento, una direzione strana, un’equazione etica incrollabile che non avevano mai fatto parte, né mai avrebbero potuto far parte, delle menti degli uomini.
Pensando a questo, Jenkins capì inorridito che nel costruire l’immagine di una formica lui aveva costruito l’immagine di un essere umano.
Cercò una poltrona, una vecchia poltrona a dondolo, e sedette, dondolandosi quietamente, scrutando oltre il prato, guardando là dove la Costruzione delle formiche continuava a crollare, un pezzo dopo l’altro.
Ma l’Uomo, ricordò Jenkins, aveva lasciato qualcosa dietro di sé. Aveva lasciato i Cani e i robot. Che cosa avevano lasciato le formiche, se avevano lasciato qualcosa? Nulla di evidente, nulla di certo, questo era ovvio… ma lui come avrebbe potuto saperlo?
Un uomo non avrebbe mai potuto saperlo, si disse Jenkins, e neppure un robot avrebbe potuto, perché un robot era un uomo, non di carne e ossa, come un uomo, ma sotto ogni altro aspetto sì. Le formiche avevano edificato la loro sconfitta… la società del formicaio era così saldamente radicata in loro, che esse non avevano saputo spezzarne i vincoli neppure per sopravvivere.
E io? si domandò d’un tratto. Non è forse anche il mio caso? Io sono racchiuso nella struttura sociale umana ancor più saldamente di quanto le formiche fossero racchiuse nella loro. Per meno di un milione di anni, ma per un tempo lunghissimo, quasi un’eternità, lui aveva vissuto non nella struttura della società umana, ma nel ricordo di quella struttura. Aveva vissuto in quella struttura, ora lo capiva, perché gli aveva offerto la sicurezza di un antico ricordo.
Continuò a dondolarsi sulla vecchia poltrona, in silenzio, ma colpito e scosso da quell’idea… o almeno dal fatto che quel pensiero fosse affiorato nella sua mente.
«Non è mai abbastanza,» disse, ad alta voce. «Non conosciamo mai abbastanza noi stessi.»
Si appoggiò ancor più allo schienale della poltrona, e pensò a quanto poco robotico fosse starsene seduto su una poltrona a dondolo. Un tempo, lui non si era mai seduto. Era l’uomo che viveva in lui, pensò. Permise alla sua testa di appoggiarsi allo schienale, di cedere al desiderio del riposo, e abbassò i filtri ottici per non vedere più la luce. Dormire, pensò… chissà cosa si provava a dormire? Forse il robot che lui aveva trovato accanto al formicaio… ma no, quel robot era morto, non addormentato. Era tutto sbagliato, si disse. I robot non dormivano e non morivano.
Altri suoni gli giunsero. La Costruzione continuava a crollare, e laggiù, sul prato, la brezza autunnale faceva frusciare l’erba. Tese i suoi sensi, per sentire i topi che correvano nelle loro gallerie, ma per una volta i topi erano quieti e silenziosi. Erano rannicchiati, in attesa. Poteva avvertire il senso di attesa che li pervadeva. I topi sapevano, in virtù di chissà quale senso dimenticato, che c’era qualcosa di diverso, che c’era qualcosa di sbagliato.
E c’era un altro suono, un bisbiglio, un suono che Jenkins non aveva mai udito in passato, un suono completamente alieno.
Aprì di scatto i suoi filtri ottici, e si rizzò a sedere, repentinamente, e proprio davanti a lui vide l’astronave atterrare sul prato.
I topi stavano correndo, ora, terrorizzati, fuggivano per salvare la vita, e l’astronave si posò al suolo, leggera, e giacque immobile, assestandosi sull’erba.
Jenkins balzò in piedi e usò tutti i suoi sensi, dirigendoli verso l’astronave, ma ogni tentativo di sondare la misteriosa, inaspettata apparizione s’infrangeva sulla superficie dello scafo. Gli era impossibile penetrare quella superficie con i suoi sensi, come gli era stato impossibile penetrare il Muro che gli aveva precluso tutto ciò che si era trovato all’interno della Costruzione, fino a quando il Muro non aveva cominciato a crollare.
Rimase così immobile, sulla veranda, completamente confuso da quella cosa tanto inaspettata. Ed era giusto che lui fosse confuso, pensò, perché fino a quel giorno non era mai accaduto niente d’inatteso. I giorni avevano continuato a scorrere, uno dopo l’altro, uno uguale all’altro, fondendosi, i giorni, gli anni, i secoli, ed era stato impossibile distinguere gli uni dagli altri. Il tempo aveva continuato a scorrere come un grande, possente fiume, senza cascate e senza rapide improvvise, sempre uguale e inarrestabile. E ora, in quel giorno, proprio quello tra tutti i giorni, la Costruzione era crollata e un’astronave era atterrata.
Un portello si aprì sul fianco dell’astronave, e dal portello venne gettata una scaletta. Un robot scese da quella scaletta, e avanzò a grandi passi sul prato, dirigendosi verso la Casa dei Webster. Il robot si fermò sul limitare della veranda.
«Salve, Jenkins,» disse. «Pensavo che ti avremmo trovato qui.»
«Tu sei Andrew, vero?»
Andrew ridacchiò, fissandolo.
«Così ti ricordi di me.»
«Io ricordo tutto,» disse Jenkins. «Tu sei stato l’ultimo a partire. Tu, insieme ad altri due robot, terminasti la costruzione dell’ultima astronave, e poi partisti dalla Terra. Io sono rimasto qui, e ho assistito alla tua partenza. Vi ho visti andare, tutti. Che cosa avete trovato, là fuori?»
«Tu ci chiamavi robot selvaggi,» disse Anderw. «Immagino che lo pensassi davvero. Ci giudicavi pazzi.»
«Non eravate dei robot normali,» lo corresse Jenkins.
«E cosa è normale?» domandò Andrew. «Vivere in un sogno? Vivere per un ricordo? Devi esserne stanco, ormai.»
«Non sono stanco…» disse Jenkins, e poi la sua voce si spense. «Andrew, le formiche hanno fallito. Sono morte. L’edificio che hanno costruito sta crollando.»
«E questo chiude il discorso su Joe,» disse Andrew. «E anche sulla Terra. Non è rimasto più niente.»
«Ci sono i topi,» disse Jenkins. «E c’è la Casa dei Webster.»
Pensò di nuovo al giorno in cui i Cani gli avevano donato un corpo nuovissimo, un regalo per il giorno del suo compleanno. Il corpo era stato un vero gioiello. Neppure il trapano più acuminato avrebbe potuto scalfirlo, e la ruggine non lo avrebbe mai potuto attaccare, ed era dotato di dispositivi sensoriali quali lui non aveva mai neppure sognato. Lo portava ancora oggi, ed era come nuovo, e quando lui si curava di lucidare un poco il petto, l’incisione appariva ancora, chiara e nitida: A JENKINS, DAI CANI.
Lui aveva visto partire tutti… gli uomini erano andati a Ginevra, per vivere un’eternità di sogni, e i Cani e tutti gli altri animali erano partiti per uno dei mondi delle ombre, e ora, infine, anche le formiche erano partite, per l’oscuro, freddo sentiero dell’estinzione.