City
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Questo libro narra la storia dell’Uomo e del suo pianeta, la Terra, attraverso i secoli futuri, in una progressione abbagliante di visioni. indimenticabili e poetiche; ? l’opera che moltissimi considerano il momento pi? intensamente poetico di tutta la storia della fantascienza. Con la sua quieta, serena filosofia, con la sua magica capacita di evocare situazioni e paesaggi allo stesso tempo grandiosi e a perfetta,’ misura umana, Simak ci descrive dapprima il graduale abbandono delle citta, per una pi? serena vita nelle campagne; e poi ci accompagna nella descrizione della lenta espansione verso gli spazi cosmici, ci mostra la comparsa dei Mutanti, enigmatici figli della razza umana che di umano conservano solo una spietata, folle ironia, ci descrive il lento passaggio dell’eredita umana ai Cani, fedeli compagni dell’Uomo per millenni, ci parla dei robot che l’uomo ha creato a propria: immagine, e degli alieni che popolano i suoi sogni cosmici. E, attraverso la rivelazione di un nuovo e totalmente inaspettato piano di, esistenza su Giove, il gigantesco pianeta che sar? il nuovo Paradiso… o il nuovo Nirvana?… per tutto il genere umano, Simak si proietta nel buio dei millenni, quando l’intera razza umana sar? ricordata con il nome di una sola famiglia, i Webster, e l’antica casa sulla collina sar? un tempio e un memoriale lentamente dimenticato. E su tutto questo grandioso affresco di figure indimenticabili, gigantesca, si staglia la figura del pi? grande personaggio creato da uno scrittore di fantascienza: Jenkins, il robot antico, che nei suoi circuiti elettronici si aggrappa disperatamente al ricordo dell’umanit? desiderata e perduta.
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Ma quando vide che nessuno dei robot gli parlava, radunò tutto il suo coraggio e si decise a parlare per primo.
«Mi chiamo Homer,» disse. «E rappresento i Cani. Se avete un capo dei robot, vorrei parlargli.»
I robot continuarono a lavorare per un minuto almeno, ma finalmente uno di loro si voltò e si avvicinò e si acquattò per terra accanto a Homer, abbassandosi in modo che la sua testa fosse all’altezza di quella del cane. Tutti gli altri robot continuarono a lavorare come se niente fosse accaduto.
«Io sono un robot di nome Andrew,» disse il robot acquattato accanto a Homer. «E non sono quello che tu chiameresti un capo dei robot, perché non abbiamo questo genere di cose tra noi. Ma io posso parlare con te.»
«Sono venuto da voi a causa della Costruzione,» gli disse Homer.
«Immagino,» disse il robot di nome Andrew, «Che tu stia parlando della struttura che si trova a nord-est del luogo dove ci troviamo. Quella che puoi vedere anche da qui, se ti volti.»
«È di quella che io parlo,» disse Homer. «Sono venuto a chiedervi perché voi la state costruendo.»
«Ma noi non la stiamo costruendo,» disse Andrew.
«Abbiamo visto dei robot lavorarci intorno.»
«Sì, ci sono dei robot che lavorano là. Ma non siamo noi a costruirla.»
«State aiutando qualcun altro?»
Andrew scosse il capo.
«Alcuni di noi ricevono una chiamata… una chiamata ad andare a lavorare là. Gli altri robot non cercano di fermarli, perché qui siamo tutti liberi.»
«Ma chi la costruisce, allora?» domandò Homer.
«Le formiche,» disse Andrew.
Homer sbalordì.
«Le formiche? Intendi parlare degli insetti? Delle piccole creature che vivono nei formicai?»
«Precisamente, disse Andrew. Fece scorrere le dita di una mano sulla sabbia, imitando il movimento di una formica che corre.
«Ma le formiche non possono costruire un luogo simile,» protestò Homer. «Sono stupide.»
«Non lo sono più,» disse Andrew.
Homer rimase immobile, raggelato sulla sabbia, e sentì dita gelide di terrore scorrergli veloci in tutto il corpo.
«Non lo sono più,» disse Andrew, parlando tra sé. «Non sono più stupide. Vedi, in un tempo lontano, c’era un uomo di nome Joe…»
«Un uomo? Che cosa sarebbe?» chiese Homer.
Il robot fece un rumore strano, come se volesse rimproverare bonariamente Homer.
«Gli uomini erano degli animali,» disse il robot. «Animali che camminavano su due gambe. Somigliavano molto a noi, solo che loro erano di carne e noi siamo di metallo.»
«Tu devi parlare dei webster,» disse Homer. «Sappiamo dell’esistenza di creature quali tu descrivi, ma le chiamiamo webster.»
Il robot annuì lentamente.
«Sì, i webster potrebbero essere uomini. C’era una loro famiglia che portava quel nome. Abitava proprio di là dal fiume.»
«Là dove tu dici, esiste un luogo chiamato Casa dei Webster,» disse Homer. «Sorge sulla cima della Collina dei Webster.»
«Quello è il luogo che dico,» fece Andrew.
«Noi la conserviamo,» disse Homer. «Per noi è come un tempio, ma non riusciamo a capirne il motivo… È la parola che è stata tramandata fino a noi… dobbiamo conservare la Casa dei Webster.»
«I webster,» gli disse Andrew, «Sono coloro che hanno insegnato a voi Cani a parlare.»
Homer si irrigidì.
«Nessuno ci ha insegnato a parlare. Siamo stati noi a imparare. Abbiamo impiegato molti e molti e ancora molti anni per evolverci. E poi abbiamo insegnato a tutti gli altri animali.»
Andrew, il robot, sedeva curvo nel sole, e annuiva lentamente, come se ricordasse tra sé cose che Homer non poteva sapere.
«Diecimila anni,» disse. «No, forse sono dodicimila. Diciamo circa undicimila.»
Homer aspettò e mentre aspettava sentì il peso degli anni che schiacciavano le colline… gli anni del fiume e del sole, della sabbia e del vento e del cielo.
E gli anni di Andrew.
«Tu sei vecchio,» disse. «Puoi ricordare un’epoca così lontana?»
«Sì,» disse Andrew. «Benché io sia stato uno degli ultimi robot creati dalle mani dell’uomo. Sono stato creato solo pochi anni prima che gli uomini andassero su Giove.»
Homer rimase in silenzio, e i suoi pensieri erano tumultuosi.
Uomo… una parola nuova.
Un animale che camminava su due gambe.
Un animale che aveva creato i robot, che aveva insegnato ai Cani a parlare.
«Non avreste dovuto restare così divisi da noi,» disse il robot. «Avremmo dovuto lavorare insieme. Un tempo abbiamo lavorato insieme. Avremmo guadagnato entrambi, se avessimo lavorato insieme.»
«Avevamo paura di voi,» disse Homer. «E io ho ancora paura di voi.»
«Sì,» disse Andrew. «Sì, immagino che sia così. Immagino che Jenkins vi abbia ispirato questa paura di noi, e l’abbia conservata e alimentata nel corso del tempo. Perché Jenkins era saggio. Sapeva che voi dovevate restare puri. Sapeva che non dovevate conservare il ricordo dell’Uomo come un peso morto sulla vostra schiena.»
Homer restò in silenzio.
«E noi,» disse il robot. «Non siamo niente di più del ricordo dell’Uomo. Noi facciamo le cose che egli faceva, solo che le facciamo più scientificamente perché, essendo delle macchine, dobbiamo essere scientifici. Le facciamo con maggiore pazienza dell’Uomo, perché noi abbiamo l’eternità ed egli aveva soltanto pochi anni.»
Andrew tracciò due linee nella sabbia, e poi altre due lìnee che tagliavano perpendicolarmente le prime. Tracciò una X nel quadrato aperto, formato dall’angolo in alto a sinistra.
«Tu pensi che io sia pazzo,» disse. «Tu credi che io dica cose senza senso.»
Homer affondò più profondamente le anche nella sabbia.
«Non so cosa pensare,» disse. «Sono passati tanti anni…»
Andrew tracciò una O col dito nel quadrato centrale del disegno che aveva tracciato nella sabbia.
«Lo so,» disse. «Sono passati tanti anni, e per tutti questi anni voi avete vissuto con un sogno. L’idea che i Cani siano stati i primi. E i fatti sono duri da comprendere, duri da conciliare con il sogno. Forse sarebbe meglio che dimenticassi ciò che ti ho detto. I fatti, a volte, sono cose dolorose. Un robot deve lavorare su di essi, perché sono le sole cose sulle quali egli può lavorare. Noi non possiamo sognare, vedi. I fatti sono tutto quello che abbiamo.»
«Noi abbiamo superato i fatti già da molto tempo,» gli disse Homer. «Non li abbiamo abbandonati del tutto, perché a volte li usiamo. Ma lavoriamo in altri modi. Abbiamo l’intuizione e lo studio delle ombre e l’ascolto.»
«Voi non siete meccanici,» disse Andrew. «Per voi, due più due non dà sempre quattro, ma per noi deve essere quattro. E a volte mi chiedo se la tradizione non ci stia accecando. Mi chiedo, a volte, se due e due non possano dare qualcosa di più o di meno di quattro.»
Rimasero seduti in silenzio, il cane e il robot, guardando il fiume, un nastro di argento fuso che scorreva al centro di una terra colorata.
Andrew tracciò una X nell’angolo in alto a destra del disegno, una O nello spazio in alto al centro, una X nello spazio in basso al centro. Con il palmo della mano cancellò il disegno sulla sabbia, cancellò tutto, lasciando la polvere liscia e intatta.
«Non vinco mai,» disse. «Sono troppo intelligente per battermi.»
«Mi stavi dicendo delle formiche,» disse Homer. «Mi stavi dicendo che non erano più stupide.»
Jenkins camminava a lunghi passi sulla collina, e non guardava né a destra né a sinistra, perché c’erano cose che non voleva vedere, cose che colpivano troppo profondamente la sua memoria antica. C’era un albero che si ergeva là dove un altro albero aveva stormito nel vento di un altro mondo. C’era una distesa di terreno ch’era stata impressa nella sua mente, calpestata da un miliardo di passi, per diecimila anni.
Il sole debole del pomeriggio, già raggelato dai brividi sottili dell’inverno, baluginava nel cielo, baluginava come la fiamma di una candela toccata dal vento, e quando la fiamma cessò di baluginare e il vento invisibile se ne fu partito verso alberi e comignoli lontani, erano i raggi della luna a bagnare il mondo d’argento, e non più i tiepidi palpiti del sole del crepuscolo.