City
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Questo libro narra la storia dell’Uomo e del suo pianeta, la Terra, attraverso i secoli futuri, in una progressione abbagliante di visioni. indimenticabili e poetiche; ? l’opera che moltissimi considerano il momento pi? intensamente poetico di tutta la storia della fantascienza. Con la sua quieta, serena filosofia, con la sua magica capacita di evocare situazioni e paesaggi allo stesso tempo grandiosi e a perfetta,’ misura umana, Simak ci descrive dapprima il graduale abbandono delle citta, per una pi? serena vita nelle campagne; e poi ci accompagna nella descrizione della lenta espansione verso gli spazi cosmici, ci mostra la comparsa dei Mutanti, enigmatici figli della razza umana che di umano conservano solo una spietata, folle ironia, ci descrive il lento passaggio dell’eredita umana ai Cani, fedeli compagni dell’Uomo per millenni, ci parla dei robot che l’uomo ha creato a propria: immagine, e degli alieni che popolano i suoi sogni cosmici. E, attraverso la rivelazione di un nuovo e totalmente inaspettato piano di, esistenza su Giove, il gigantesco pianeta che sar? il nuovo Paradiso… o il nuovo Nirvana?… per tutto il genere umano, Simak si proietta nel buio dei millenni, quando l’intera razza umana sar? ricordata con il nome di una sola famiglia, i Webster, e l’antica casa sulla collina sar? un tempio e un memoriale lentamente dimenticato. E su tutto questo grandioso affresco di figure indimenticabili, gigantesca, si staglia la figura del pi? grande personaggio creato da uno scrittore di fantascienza: Jenkins, il robot antico, che nei suoi circuiti elettronici si aggrappa disperatamente al ricordo dell’umanit? desiderata e perduta.
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Jenkins rallentò il passo e si voltò e la casa era là… acquattata vicinissima alla terra, distesa sulla collina, come una creatura giovane e sonnolenta aggrappata alla madre terra.
Jenkins fece un passo esitante e, quando si mosse di nuovo, il suo corpo di metallo brillò e scintillò rifrangendo in una pioggia di diamanti d’argento la luce della luna, ch’era stata la luce del sole soltanto un breve istante prima, lo spazio fuggevole del battito di un cuore.
Dal fondo della valle, là dove scorreva il fiume d’argento, giungeva il pianto lontano di un uccello notturno, e un procione stava singhiozzando in un campo di granoturco, subito dietro la cima del colle.
Jenkins fece un altro passo e pregò che la casa non se ne andasse… benché sapesse che la casa se ne sarebbe andata, perché non era là. Perché quella era la cima spoglia di una collina che non aveva mai conosciuto una casa. Perché quello era un altro mondo, dove non esistevano case.
La casa restò, nera e silenziosa, e non usciva fumo dal comignolo, non usciva luce dalle finestre, ma i contorni erano quelli di sempre, quelli che il ricordo non poteva confondere.
Jenkins avanzò lentamente, molto lentamente, con prudenza, timoroso che la casa se ne andasse, timoroso di spaventarla e di farla sparire.
Ma la casa rimase, solida e ferma e oscura. E c’erano delle altre cose, e anche quelle rimasero. L’albero nell’angolo era stato un olmo e adesso era una quercia, com’era stato prima. E la luna era la luna d’autunno, e non il sole d’inverno. E la brezza soffiava da ponente, non soffiava fredda dal nord.
È accaduto qualcosa, pensò Jenkins. La cosa che è cresciuta dentro di me. La cosa che sentivo e che non potevo capire. Una nuova capacità che si sviluppava? Oppure un nuovo senso che finalmente veniva alla luce? Oppure soltanto un potere che non aveva mai sognato di possedere.
Il potere di camminare di mondo in mondo, a volontà. Il potere di andare ovunque io voglia, prendendo la strada più breve che le mutevoli linee di forza del tempo che non è il tempo, del caso che non è il caso, mi possono procurare.
Camminò con minore prudenza e la casa rimase ancora, per nulla spaventata, solida e materiale e sicura.
Attraversò il giardino invaso dalle erbacce e si fermò davanti alla porta.
Esitante, sollevò una mano e la posò sul saliscendi. E il saliscendi era là. Non era il fantasma di una cosa perduta, ma era là, nella concretezza del metallo.
Lentamente lo abbassò e la porta si aprì verso l’interno e lui varcò la soglia.
Dopo cinquemila anni, Jenkins era tornato a casa… era tornato alla Casa dei Webster.
Così c’era stato un uomo di nome Joe. Non un webster, ma un uomo. Perché un webster era un uomo. E i Cani non erano stati i primi.
Homer giaceva davanti al fuoco, mucchietto inerte di pelo e di ossa e di muscoli, con le zampe tese davanti a sé e il muso poggiato sulle zampe. Di tra gli occhi socchiusi vedeva il fuoco e l’ombra, sentiva il calore dei ceppi ardenti che gli scaldava il corpo, gli arruffava il pelo.
Ma all’interno della sua mente lui vedeva la sabbia e il robot acquattato accanto a lui e le colline curve sotto il peso degli anni.
Andrew era rimasto acquattato sulla sabbia e gli aveva parlato, con il sole d’autunno che riverberava stanco sulle sue spalle d’acciaio… gli aveva parlato di uomini e di cani e di formiche. Di una cosa ch’era accaduta quando Nathaniel era stato vivo, e quello era un tempo già da molto passato, perché Nathaniel era il primo Cane.
C’era stato un uomo di nome Joe… un uomo-mutante, un uomo che era più dell’Uomo… e quell’uomo di nome Joe che era stato un mutante aveva guardato le formiche e si era posto delle domande, in un giorno perduto di dodicimila anni prima. Si era chiesto perché le formiche avessero progredito fino a un certo punto e poi si fossero fermate, perché avessero raggiunto la fine del vicolo cieco del destino.
La fame, forse, aveva pensato Joe… quel bisogno pressante di trovare del cibo per sopravvivere. L’ibernazione, forse, il letargo ristagnante del sonno d’inverno, l’anello spezzato della catena dei ricordi, il ricominciare tutto da principio, tanto che ogni anno e ogni primavera rappresentavano una nuova genesi per le formiche.
Così, aveva detto Andrew, con il suo cranio calvo riverberante nel sole, Joe aveva scelto un formicaio, e si era messo al lavoro, come un dio, per cambiare il destino delle formiche. Le aveva sfamate, perché non avessero più bisogno di lottare disperatamente per sopravvivere, di lottare disperatamente contro una grande nemica, la fame. Aveva racchiuso il formicaio in una cupola di vetro e aveva riscaldato la cupola, perché esse non cadessero più in letargo.
E la cosa aveva funzionato. Le formiche erano progredite, avevano fabbricato dei piccoli carri e avevano imparato a fondere i metalli. Tutto questo si era potuto sapere, perché i carretti avevano viaggiato sul terreno e acri vapori di metallo fuso erano usciti dai comignoli sporgenti dal formicaio. Quali altre cose avessero fatto, quali altre cose avessero imparato, nelle profondità segrete delle loro gallerie, non c’era modo di saperlo.
Joe era pazzo, aveva detto Andrew. Pazzo… eppure, forse, non così pazzo.
Perché un giorno aveva distrutto la cupola di vetro e aveva fatto crollare il formicaio col piede, poi si era voltato e se ne era andato, senza più curarsi delle formiche.
Ma le formiche, invece, si erano curate del proprio destino.
La mano che aveva distrutto la cupola, il piede che aveva sconvolto il formicaio, erano stati la mano e il piede che avevano messo le formiche sulla strada della grandezza. Le formiche erano state costrette a lottare… lottare per conservare le cose che avevano, lottare per impedire alla bottiglia del destino di chiudersi ancora una volta sulle loro speranze.
Un calcio ben dato, aveva detto Andrew. Un calcio ben dato, per le formiche. Un calcio nella giusta direzione.
Dodicimila anni prima era stato un formicaio sconvolto e rovesciato, oggi era una costruzione immensa che cresceva con il passare di ogni anno.
Una costruzione… e non poteva essere il nome adatto, anche se fin dall’inizio era stata chiamata ’la Costruzione’. Perché una costruzione era un edificio, e un edificio era una casa, e una casa era un riparo, un luogo in cui nascondersi dalle dita crudeli del gelo e della tempesta. E le formiche non avevano bisogno di questo, perché avevano le loro gallerie e i loro formicai.
Perché una formica avrebbe dovuto costruire un edificio che aveva inghiottito dieci chilometri quadrati di terra in poco più di un secolo, e, malgrado ciò, continuava a crescere e a crescere e a crescere ancora? Cosa avrebbe potuto farsene una formica di un luogo simile?
Homer appoggiò il muso sulle zampe, stancamente, e un mugolio gli salì alle labbra.
Non c’era modo di saperlo. Perché, prima, bisognava sapere come pensava una formica. Bisognava conoscere le sue ambizioni e la sua meta. Bisognava scrutare dentro di lei, apprendere ciò che lei sapeva, sondare la sua scienza.
Dodicimila anni di scienza e di conoscenza. Dodicimila anni, da un punto di partenza anch’esso ignoto, anch’esso imperscrutabile.
Ma bisognava sapere. Doveva esserci un modo per sapere.
Perché, un anno dopo l’altro, la Costruzione avrebbe continuato a crescere. Prima un chilometro e poi sei chilometri e poi cento chilometri. Cento chilometri, duecento chilometri, e poi, ancora, tutto il mondo.
Potremmo ritirarci, pensò Homer. Sì, potremmo ritirarci. Potremmo migrare in quegli altri mondi, i mondi che ci seguono lungo il fiume del tempo, i mondi che si sfiorano senza mai toccarsi, uno dopo l’altro, in una processione infinita. Potremmo lasciare la Terra alle formiche, e ci sarebbe ancora dello spazio per noi.
Ma questa è la nostra patria. Questa è la nostra casa. È qui che i Cani sono nati, e qui che è nata la nostra civiltà, è qui che abbiamo insegnato agli animali a parlare, e non solo a parlare, ma a pensare e ad agire insieme. È questo il luogo in cui abbiamo creato la Fratellanza degli Animali.