Il Maestro e Margherita
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— Perché dovrei tornare qui? — chiese inquieto Ivan.
Sembrava che Stravinskij si aspettasse questa domanda, si risedette subito e cominciò a dire:
— Perché non appena lei arriverà in mutande alla polizia e dichiarerà che ha incontrato un uomo che ha conosciuto di persona Ponzio Pilato, la porteranno immediatamente qui, e lei si ritroverà in questa stessa stanza.
— Che c’entrano le mutande? — chiese Ivan con espressione meravigliata.
— Soprattutto Ponzio Pilato. Ma anche le mutande. La biancheria dell’ospedale ce la dovrà restituire, e le daremo i suoi indumenti. Lei è stato portato qui in mutande. D’altro canto, lei non aveva intenzione di passare da casa sua, nonostante la mia allusione. Poi arriverà Pilato… e la frittata sarà fatta.
A queste parole, qualcosa di strano successe a Ivan Nikolaevič Sembrò che la sua volontà si fosse spezzata, si sentí debole e bisognoso di un consiglio.
— Ma allora che dovrei fare? — chiese, questa volta con timidezza.
— Oh, bravo! — replicò Stravinskij. — Questa è una domanda ragionevolissima. Adesso le dirò io che cosa le è successo esattamente. Ieri lei è stato spaventato e scosso da qualcuno che le ha parlato di Ponzio Pilato e di altre cose. Lei, persona nervosa ed esaurita, ha cominciato a girare la città parlando di Ponzio Pilato. È piú che naturale che l’abbiano creduto pazzo. La sua salvezza sta in una cosa soltanto: il riposo assoluto. Lei deve assolutamente restare qui.
— Ma è indispensabile catturarlo! — esclamò Ivan, questa volta però con voce supplichevole.
— D’accordo, ma perché deve correre in giro proprio lei? Esponga per iscritto tutti i suoi sospetti e le sue accuse contro quest’uomo. Non c’è nulla di piú semplice che inoltrare la sua dichiarazione alle autorità competenti. Se come lei crede, abbiamo a che fare con un criminale, lo si verrà a sapere in fretta. Ma le porrei un’unica condizione: non si scervelli troppo, e cerchi di pensare a Ponzio Pilato il meno possibile. Si possono raccontare tante cose! Non bisogna credere a tutto.
— Ho capito! — dichiarò Ivan con voce decisa. — Favorisca farmi dare carta e penna.
— Dategli della carta e una matita corta, — ordinò Stravinskij alla donna grassa, e a Ivan disse: — Per oggi almeno le consiglierei di non scrivere.
— No, no, devo scrivere oggi stesso, subito! — esclamò Ivan preoccupato.
— Va bene, allora, ma non si stanchi troppo la testa. Se non le riesce oggi, le riuscirà domani.
— Scapperà!
— Oh no, — replicò con voce sicura Stravinskij, — le garantisco che non scapperà affatto. E si ricordi che qui lei avrà ogni aiuto possibile, senza il quale non concluderà nulla. Mi sente? — chiese a un tratto il professore con voce carica di significato, e s’impadroní di entrambe le mani di Ivan Nikolaevič. Tenendole fra le sue, lo fissò a lungo negli occhi, ripetendo: — Qui lei sarà aiutato… mi sente?… Qui lei sarà aiutato… troverà sollievo… qui c’è calma, tranquillità… qui lei sarà aiutato…
All’improvviso Ivan Nikolaevič sbadigliò, l’espressione del suo viso si addolcí.
— Sí, sí, — disse sommesso.
— Bravo! — concluse Stravinskij com’era sua abitudine, e si alzò: — Arrivederci! — Strinse la mano a Ivan, e, già sulla soglia, si voltò verso quello della barbetta dicendo: Sí, provi pure l’ossigeno… e bagni.
Alcuni istanti dopo, Ivan non vedeva piú né Stravinskij né il seguito. Oltre l’inferriata, sotto il sole di mezzogiorno, si scorgeva sull’altra sponda la pineta primaverile e gaia, e, piú vicino, scintillava il fiume.
CAPITOLO NONO
I trucchi di Korov’ev
Nikanor Ivanovič Bosoj, presidente della cooperativa degli inquilini della casa n. 302 bis sulla via Sadovaja a Mosca, dove era vissuto il defunto Berlioz, fin dalla notte precedente, tra mercoledí e giovedí, aveva avuto un gran daffare.
A mezzanotte, come già sappiamo, era giunta nella casa una commissione di cui faceva parte Želdybin, avevano convocato Nikanor Ivanovič, lo avevano informato della morte di Berlioz, e con lui si erano recati nell’appartamentino n. 50.
Là furono apposti i sigilli sui manoscritti e sugli oggetti di proprietà del defunto. In quel momento nell’appartamento non c’erano né Grunja, la donna a ore, né lo spensierato Stepan Bogdanovič. La commissione dichiarò a Nikanor Ivanovič che avrebbe ritirato i manoscritti del defunto per sistemarli, che le tre stanze da lui occupate (l’ex studio, salotto e sala da pranzo della gioielliera) tornavano a disposizione della cooperativa, mentre gli oggetti appartenenti al defunto sarebbero rimasti in loco fino a che non si fossero presentati gli eredi.
La notizia della morte di Berlioz si diffuse nella casa con una rapidità prodigiosa, e dalle sette del mattino di giovedí a Bosoj cominciarono a telefonare, e poi da lui cominciarono a venire di persona con domande scritte che rivendicavano i locali del defunto. Nel corso di due ore, Nikanor Ivanovič ricevette trentadue domande del genere.
Esse contenevano suppliche, minacce, cavilli, delazioni, promesse di eseguire a proprie spese le riparazioni necessarie, lagnanze per l’insopportabile mancanza di spazio e l’impossibilità di coabitare in uno stesso appartamento con dei banditi. Tra l’altro c’era anche la descrizione, stupefacente per vigore poetico, del furto di certi agnolotti alla siberiana con immediata sistemazione degli stessi nella tasca della giacca, il tutto avvenuto nell’appartamento n. 31, e poi due promesse di por fine alla propria vita con un suicidio e una confessione di gravidanza clandestina.
I visitatori chiamavano Nikanor Ivanovič nell’anticamera del suo appartamento, lo afferravano per una manica, gli sussurravano qualcosa, gli ammiccavano e promettevano che non sarebbero rimasti in debito.
Questa tortura continuò fino a mezzogiorno passato, quando Nikanor Ivanovič scappò di casa e si rifugiò nell’ufficio dell’amministrazione vicino al portone, ma quando vide che anche lí stavano già in agguato, fuggí di nuovo. Riuscí in qualche modo a sbarazzarsi di quelli che lo tallonavano attraverso il cortile asfaltato, scomparve nell’interno n. 6 e salí al quinto piano, dove si trovava quello schifoso appartamento.
Ripreso fiato sul pianerottolo, il pingue Nikanor Ivanovič suonò ma nessuno gli aprí. Suonò una seconda volta poi una terza, e cominciò a brontolare e imprecare a bassa voce Ma neanche allora gli fu aperto. La pazienza di Nikanor Ivanovič andò a farsi benedire, ed egli tirò fuori dalla tasca un mazzo di duplicati di chiavi appartenenti all’amministrazione della casa, aprí la porta con mano imperiosa ed entrò.
— Ehi, cameriera! — gridò Nikanor Ivanovič nell’anticamera semibuia. — Come ti chiami, Grunja, no?… Non ci sei?
Nessuno rispose.
Allora Nikanor Ivanovič trasse dalla borsa un metro pieghevole poi tolse il sigillo dalla porta dello studio e fece un passo in avanti. Il passo lo fece, ma si fermò sulla soglia sbalordito e ebbe perfino un sussulto.
Al tavolo del defunto stava seduto uno sconosciuto magro, lungo, con un giacchettino a quadretti, un berretto da fantino e occhiali a molla… insomma, quel tale.
— Lei chi sarebbe, signore? — chiese spaventato Nikanor Ivanovič.
— To’! Nikanor Ivanovič! — urlò l’ospite inatteso con tremolante voce tenorile, e, balzando in piedi, salutò il presidente con una stretta di mano forzata e repentina.
Questo saluto non rallegrò affatto Nikanor Ivanovič.
— Mi scusi, — disse con sospetto, — lei chi sarebbe? Un funzionario?
— Eh, Nikanor Ivanovič! — esclamò lo sconosciuto con voce cordiale. — Che importanza ha, funzionario o non funzionario? Tutto dipende dal punto di vista da cui si guarda l’oggetto. Tutto, Nikanor Ivanovič, è convenzionale e incerto. Oggi non sono un funzionario, ma domani, quando meno te lo aspetti, lo divento! Capita anche il contrario, e come!