Il Maestro e Margherita
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Ma nessuno rispose. Diede un’occhiata alla porta dello studio di Berlioz, vicino all’anticamera, e rimase di stucco, come si suol dire. Sulla maniglia vide uno spago con un enorme sigillo di ceralacca.
«Caspita! — esclamò qualcuno nel cervello di Stepa. Ci mancava anche questa!» E qui i suoi pensieri corsero ormai lungo un doppio binario, ma, come sempre succede in caso di catastrofe, in una sola direzione, e il diavolo sa quale. È difficile perfino descrivere il guazzabuglio che regnava nella testa di Stepa. C’entrava anche tutta quella diavoleria del berretto nero, della vodka gelata e del contratto incredibile… E oltre tutto questo, come se non bastasse, il sigillo sulla porta! Cioè, dite a chi volete che Berlioz ha combinato un pasticcio, e non vi crederà, non vi crederà neanche ad ammazzarlo! Eppure, ecco lí il sigillo! Giaaaà…
Poi formicolarono nel cervello di Stepa certi sgradevolissimi pensieruzzi a proposito di un articolo che, quasi a farlo apposta, egli aveva consegnato a Michail Aleksandrovič poco tempo prima per la pubblicazione sulla sua rivista. Un articolo cretino, sia detto fra di noi! Robetta, e in tasca ne veniva ben poco…
Subito dopo il ricordo dell’articolo gli venne quello di una conversazione ambigua che, rammentava, si era svolta la sera del ventiquattro aprile in sala da pranzo, mentre stava cenando con Michail Aleksandrovič. Cioè, ambigua nel vero senso della parola chiamarla non si poteva (Stepa non l’avrebbe mai accettata, una conversazione cosí), però si era parlato di certe cose superflue. Si sarebbe proprio potuto fare a meno, signori miei, di avviare quella conversazione. Prima dei sigilli, la si poteva considerare, senza alcun dubbio, una cosettina da niente, ma dopo i sigilli…
«Oh, Berlioz, Berlioz! — turbinava nel cervello di Stepa. Non mi entra in testa!»
Tuttavia non c’era tempo per affliggersi a lungo, e Stepa formò il numero dell’ufficio di Rimskij, il direttore finanziario del Varietà. La posizione di Stepa era delicata: anzitutto lo straniero poteva offendersi perché egli procedeva a un controllo dopo aver visto il contratto, e poi parlare col direttore finanziario era estremamente difficile. Infatti, non gli poteva mica chiedere: «Mi dica un po’, ieri non ho forse concluso un contratto di trentacinquemila rubli con un professore di magia nera?» Non si possono fare domande del genere!
— Sí! — udí nel ricevitore la voce brusca e sgradevole di Rimskij.
— Buon giorno, Grigorij Danilovič, — disse Stepa sottovoce. — Parla Lichodeev. Ecco di che si tratta… hm… hm… C’è qui da me quel… eh… l’artista Woland… Bene… le volevo chiedere, che si fa per questa sera?
— Ah, quello della magia nera? — rispose Rimskij. — I manifesti sono quasi pronti.
— Aha… — disse Stepa con voce debole, — be’, ci vediamo…
— Lei viene tra poco? — chiese Rimskij.
— Tra mezz’ora, — rispose Stepa e, appeso il ricevitore, si strinse tra le mani la testa che scottava. Che brutta storia era quella! Che cos’era successo alla sua memoria, signori miei, eh?
Però non stava bene trattenersi oltre in anticamera, e Stepa stabilí subito un piano: nascondere con ogni mezzo la sua incredibile smemoratezza, e adesso, per prima cosa, farsi dire con l’astuzia dallo straniero che cosa intendeva mostrare quella sera al Teatro di Varietà di cui Stepa era il direttore.
Stepa volse le spalle all’apparecchio e, nello specchio dell’anticamera che la pigra Grunja non aveva spolverato da tempo, vide distintamente uno strano tipo, lungo come una stanga, con gli occhiali a molla (oh, se ci fosse stato Ivan Nikolaevič! L’avrebbe riconosciuto subito!) L’immagine balenò nello specchio e scomparve. Allarmato, Stepa scrutò piú a fondo l’anticamera, e barcollò una seconda volta perché, riflesso nello specchio, passò un robusto gatto nero, e anch’esso scomparve.
Il cuore di Stepa smise di battere ed egli vacillò.
«Che succede? — pensò. — Non starò mica diventando matto? Da dove vengono queste immagini?!» Scrutò l’anticamera e gridò spaventato:
— Grunja! Cos’è quel gatto che gira per casa?! Di dove viene? E c’è qualcun altro ancora!
— Non si preoccupi, Stepan Bogdanovič, — rispose una voce; non quella di Grunja però, bensí quella del visitatore in camera da letto. — Quel gatto è mio. Non sia nervoso. Grunja non c’è, l’ho mandata a Voronez. Si lamentava che lei le aveva soffiato le ferie.
Queste parole erano talmente inattese e assurde che Stepa pensò di aver capito male. Totalmente confuso, ritornò di trotto in camera da letto, e sulla soglia rimase di sasso. I suoi capelli si mossero, e la fronte gli si imperlò di sudore.
Nella camera da letto, l’ospite non era piú solo: nella seconda poltrona stava seduto quel tipo che gli era parso di intravedere in anticamera. Adesso lo si vedeva distintamente: baffi a penna, un vetro degli occhiali luccicava, l’altro non c’era. Ma scoprí cose anche peggiori: sul pouf della gioielliera stava sdraiato in una posa disinvolta un terzo essere, e precisamente un gatto nero di dimensioni paurose, con un bicchierino di vodka in una zampa, e, nell’altra, una forchetta, su cui aveva già infilato un fungo marinato.
La luce già debole della camera da letto si offuscò ancora di piú negli occhi di Stepa. «Ah, è cosí che si impazzisce…», pensò, e si afferrò allo stipite della porta.
— Vedo che lei è un poco sorpreso, carissimo Stepan Bogdanovič, — si rivolse Woland a Stepa, che batteva i denti. — Ma non è proprio il caso di stupirsi. Questo è il mio seguito.
In quel mentre il gatto bevve la vodka, e la mano di Stepa scivolò lungo lo stipite.
— Anche il seguito ha bisogno di spazio, — continuava Woland, — perciò uno di noi in questo appartamento è di troppo. A me pare che questa persona di troppo sia proprio lei.
— Loro, proprio loro, — canticchiò il lungo personaggio a quadretti con voce da caprone, parlando di Stepa al plurale. — Del resto, in questi ultimi tempi hanno fatto porcherie spaventose. Si sbronzano, allacciano relazioni con donne approfittando della propria posizione, non fanno un accidente, e non fanno niente per il semplice motivo che non capiscono niente del lavoro che è stato loro affidato. Dànno ad intendere lucciole per lanterne ai loro superiori!
— Usano senza una ragione le automobili dell’ufficio, spiattellò il gatto, masticando un fungo.
A questo punto nell’appartamento successe il quarto e ultimo avvenimento strano, mentre Stepa, che ormai era scivolato fino a terra, graffiava lo stipite con mano svigorita.
Proprio dal vetro della specchiera uscí un tale, piccolo, ma straordinariamente largo di spalle, con un tubino in testa, e una zanna che spuntava dalla bocca, rendendo ancora piú orrendo un ceffo che era già oltremodo repellente. Come se non bastasse, aveva i capelli di un rosso acceso.
— Io, — entrò nella conversazione il nuovo venuto, non capisco proprio come abbia fatto a diventare direttore — il rosso parlava con voce sempre piú nasale, — lui è direttore come io sono vescovo — Tu non assomigli a un vescovo, Azazello, — osservò il gatto, riempiendosi il piatto di würsteln.
— È quello che sto dicendo, — ribadí il rosso con la sua voce nasale voltandosi verso Woland, aggiunse con deferenza: — Mi permette, Messere, di mandarlo al diavolo, lontano da Mosca?
— Pscttt! — ringhiò all’improvviso il gatto, rizzando il pelo.
La camera da letto vorticò intorno a Stepa; egli urtò con la testa lo stipite della porta, e pensò, mentre perdeva conoscenza: «Sto morendo…»
Ma non morí. Socchiudendo gli occhi, si accorse di sedere su delle pietre. Intorno a sé udiva un rumore. Quando aprí ben bene gli occhi, capí che era il mare, e che, anzi un’onda fluttuava proprio ai suoi piedi, e che, insomma, stava seduto all’estremità di un molo, e sopra di lui c’era un azzurro cielo rilucente; e dietro, una bianca città adagiata sui monti.
Non sapendo come si reagisce in casi simili, Stepa si erse sulle gambe tremanti e, lungo il molo, si diresse alla volta della spiaggia.