Il giorno prima della rivoluzione
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Di nuovo la scissione. «Lei«» e «il suo corpo». La vecchiaia e la malattia ti portavano a scindere così, a evadere; il tuo cervello insisteva: "Non sono io, non sono io". E invece eri tu. Forse ai mistici era possibile separare intelletto e corpo: lei aveva sempre invidiato loro questa possibilità, senza sperare di poterli emulare. L’evasione era un gioco al quale non aveva mai giocato. Piuttosto aveva cercato la libertà, subito, per il corpo e per l’anima.
Prima autocommiserazione, poi autoincensamento; eccola sempre lì col nome di Asieo tra le mani. Per amor di Dio, ma perché? Non conosceva già quel nome senza avere il bisogno di tenerlo sotto gli occhi? Forse c’era in lei qualcosa che non andava? Portò alle labbra la cartellina e baciò con decisione e determinazione quel nome scritto a mano; ripose la cartellina nel cassetto, lo richiuse e si appoggiò eretta allo schienale. La mano destra le formicolava. La grattò, poi l’agitò nell’aria con rabbia. Non si era mai ripresa del tutto dal colpo. Così pure la gamba destra, e l’occhio destro, e l’angolo destro della bocca. Restavano insensibili in parte, inerti, pieni di formicolii. La facevano sentire come un robot con un cortocircuito.
Intanto il tempo passava, Noi sarebbe arrivato, e lei cos’aveva fatto dopo colazione?
Si alzò così all’improvviso che barcollò e si dovette afferrare alla sedia per essere certa di non cadere. Infilò il corridoio dirigendosi in bagno e si guardò nel grande specchio. La grigia crocchia le scendeva giù disfatta: non l’aveva pettinata bene, prima di colazione. Si affannò cercando di risistemarla. Com’era arduo tenere le braccia sollevate in aria. Amai, entrata di corsa per andare alla toilette, si fermò e le disse: — Faccio io! — ; e gliel’annodò con cura e perizia in un attimo, con quelle sue piacevoli dita tonde e forti, sorridendo in silenzio. Amai aveva vent’anni, meno di un terzo degli anni di Laia. I suoi genitori erano stati entrambi membri del Movimento: uno era rimasto ucciso nell’insurrezione del ’60, l’altro era ancora alla ricerca di nuove adesioni al partito nelle province meridionali. Amai era cresciuta nelle Case odoniane: nata per la rivoluzione, vera figlia dell’anarchia. Una bambina così tranquilla e libera e bella che il solo pensiero commuoveva: è per questo che abbiamo lavorato, è questo che volevamo costruire, questo, ed eccola qui, viva, il nostro futuro felice e radioso.
L’occhio destro di Laia Asieo Odo pianse alcune minuscole lacrime, mentre lei stava lì in piedi tra i lavabi e le latrine e mentre la figlia che lei non aveva generato le acconciava i capelli; ma l’occhio sinistro, quello forte, non piangeva e ignorava cosa faceva il destro.
Laia ringraziò Amai e tornò in fretta nella propria stanza. Nello specchio aveva notato una macchia sul colletto. Probabilmente succo di pesca. Vecchia bavosa. Non voleva che Noi entrasse e la trovasse con quella sbavatura sul colletto.
Mentre s’infilava dalla testa la camicia pulita pensò: "Ma cos’ha Noi di così speciale?"
Allacciò lentamente gli alamari del colletto con la mano sinistra.
Noi era sui trent’anni, esile, muscoloso, con una voce calda e vivi occhi scuri. Questo era tutto ciò che lo caratterizzava. Semplicissimo. Il buon sesso di una volta. Gli uomini biondi o grassi non avevano mai esercitato su di lei il minimo fascino, e nemmeno si era mai sentita attratta dai tipi alti e dotati di grandi bicipiti, no, nemmeno quando aveva quattordici anni e cadeva come una pera cotta al passare di un ganimede qualunque. Bruno, smilzo e focoso: questa era la sua ricetta. Taviri, naturalmente. Quel ragazzino non si poteva certo paragonare a Taviri per intelligenza e nemmeno fisicamente, ma il punto era questo: lei non voleva che la vedesse con quella sbavatura sul colletto e con i capelli tutti in disordine.
Quei suoi capelli sottili, grigi.
Entrò Noi, che si era trattenuto appena un attimo sulla soglia. Santo Dio, lei non aveva nemmeno chiuso la porta mentre si cambiava la camicia! Lo guardò e vide se stessa. Una vecchia.
Che si spazzoli i capelli e si cambi la camicia, o invece indossi la camicia della settimana prima e si porti in giro le trecce della notte prima o ancora si metta un abito intessuto d’oro e si cosparga con polvere di diamanti la testa rasata, non fa la minima differenza. Una vecchia appare soltanto poco più o poco meno grottesca.
Ci si tiene in ordine per puro senso della decenza, per pura e semplice igiene mentale, per consapevolezza del prossimo.
E poi anche questo non vale più, e ci si sbava addosso senza ritegno.
— Buongiorno — disse il ragazzo, con quella sua voce gentile.
— Ciao, Noi.
No, perdio, non era soltanto per un senso di decenza. Al diavolo la decenza. Se l’uomo che lei aveva amato, e per il quale la sua età non sarebbe stata importante, perché era morto, soltanto per quel motivo lei doveva fingere di essere ormai asessuata? Per questo doveva reprimere la verità, come una qualunque stupida puritana autoritaria? Solo sei mesi addietro, prima del colpo apoplettico, era tale che gli uomini si voltavano, e con piacere, a guardarla; e adesso, pur non essendo in grado di dare piacere agli altri, perdio poteva almeno piacersi.
Quando lei aveva sei anni e un amico di papà — Gadeo — veniva a parlare con lui di politica dopo cena, lei si metteva la collana dorata che la mamma aveva trovato in un mucchio di ciarpame e portato a casa nascosta nel colletto dove nessuno la poteva vedere. Ma lei sapeva che a Gàdeo questo piaceva. Era bruno, aveva denti bianchi che risplendevano. A volte la chiamava «la sua bella Laia». «Ecco che arriva la mia bella Laia!». Sessantasei anni prima.
— Cosa? Mi sento la testa vuota. Ho passato una notte terribile -. Era vero. Aveva dormito meno ancora del solito.
— Ti ho chiesto se hai letto i giornali di oggi.
Lei fece segno di sì col capo.
— Soddisfatta di Soinehe?
Soinehe era la provincia di Thu che la sera precedente aveva dichiarato la secessione dallo Stato di Thu.
Lui ne era soddisfatto. I bianchi denti gli splendevano sul volto bruno e pieno di vita. La bella Laia.
— Sì. E preoccupata.
— Lo so. Ma questa volta è l’ora della verità. È l’inizio della fine per il governo di Thu. Non hanno nemmeno cercato di far arrivare truppe a Soinehe, capisci? Non farebbero altro che portare i soldati alla ribellione prima dell’inevitabile, e lo sanno.
Lei era d’accordo. Aveva provato la sua stessa certezza. Ma non riusciva a condividere il suo compiacimento. Dopo una vita spesa nella speranza perché nient’altro era concesso, si perdeva il gusto della vittoria. Un vero senso di trionfo dev’essere preceduto da vera disperazione. E lei aveva disimparato a disperare tanto tempo prima. Il trionfo non era più possibile. Si tirava avanti.
— Oggi facciamo quelle lettere?
— Va bene. Quali lettere?
— Per quelli del nord — disse con pazienza Noi.
— Quelli del nord?
— Parheo, Oaidun.
Lei era nata a Parheo, città sporca su quel suo fiume sporco. Non era venuta alla capitale che a ventidue anni, quando si era sentita pronta per portare la rivoluzione, sebbene allora, prima che lei e gli altri la rimeditassero, la loro rivoluzione fosse molto acerba e puerile. Scioperi per migliorare i salari, per far entrare in parlamento una rappresentanza femminile. Voti e salari: potere e denaro, per amor di Dio! Be’, dopotutto, in cinquant’anni qualcosa si impara!
E poi si ridimentica tutto.
— Incomincia con Oaidun — disse, sedendosi nella poltrona. Noi era alla scrivania, pronto per il lavoro. Lesse brani dalle lettere che aspettavano la risposta di Laia. Lei cercò di essere attenta, e ci riuscì abbastanza bene da dettare una lettera intera e iniziarne un’altra. — Ricorda che a questo stadio il tuo sentimento di fratellanza può essere messo in forse da… no, in pericolo… da… — Annaspò con le parole fino a quando Noi le suggerì: — Il pericolo del culto della personalità?