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La falce dei cieli

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La falce dei cieli
Название: La falce dei cieli
Дата добавления: 16 январь 2020
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La falce dei cieli - читать бесплатно онлайн , автор Le Guin Ursula Kroeber

George Orr ha paura di sognare. Perch? si ? reso conto che alcuni dei suoi sogni diventano realt?… nel bene e nel male. Angosciato da questo suo oscuro potere e incapace di dominarlo, George tenta il suicidio e viene cos? affidato a uno psicanalista che promette di aiutarlo. Ben presto, tuttavia, George scoprir? che il medico ha un piano ben preciso per sfruttare le capacit? del suo singolare paziente…

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Non pioveva. Quando uscì dall’atrio della East Tower Willamette, il cielo marzolino era chiaro e sereno, al di sopra dei canyon stradali. Si era messo a soffiare il vento dell’est: il vento secco del deserto, che di tanto in tanto spirava a rianimare il clima umido, caldo, melanconico, grigio della Valle del Willamette.

L’aria più chiara riuscì a sollevargli leggermente l’umore. Raddrizzò le spalle e si avviò sul marciapiede, cercando di ignorare lo stordimento, che probabilmente era l’effetto combinato della stanchezza, dell’ansia, di due sonnellini a un’ora inconsueta, e di una discesa in ascensore dal 62° piano.

Che il dottore gli avesse ordinato di sognare la fine della pioggia? O gli aveva ordinato di sognare Kennedy (il quale, ora che ci pensava, aveva la barba come Abramo Lincoln)? O di sognare lo stesso Haber? Non c’era modo di dirlo. La parte «efficace» del sogno era quella che aveva fermato la pioggia, era il cambiamento atmosferico; ma ciò non dimostrava niente. Spesso l’elemento «efficace» del sogno non era affatto quello che pareva più importante, o più sorprendente. Orr aveva il sospetto che Kennedy, per motivi che erano chiari solamente alla sua psiche inconscia, fosse un’aggiunta sua, ma non poteva esserne certo.

Entrò nella stazione del metrò di East Broadway insieme con l’infinita moltitudine. Infilò nella macchinetta la moneta da cinque dollari, prese il biglietto e salì sul vagoncino, che presto si immerse nella tenebra al di sotto del fiume.

Il suo capogiro fisico e mentale aumentò.

Passare sotto un fiume: che stranezza, che idea assolutamente balorda.

Attraversarlo su un ponte, passarlo a guado o a nuoto, usare una barca, una zattera, un traghetto, un aereo, risalire il suo corso, farsi trascinare a valle dall’eterna rinascita della corrente: questi, sono modi sensati. Ma l’andare sotto un fiume comporta qualcosa di perverso, nel vero senso etimologico della parola. Nella mente e all’esterno di essa ci sono cammini che, già per il solo fatto di essere così tortuosi, mostrano chiaramente che dobbiamo avere preso da tempo la svolta sbagliata, se ci siamo dentro.

C’erano nove tunnel, tra ferroviari e stradali, sotto il Willamette, sedici ponti che lo attraversavano, quarantacinque chilometri di cemento che ne accompagnavano il corso. Il controllo delle acque, su di esso e sul suo grande affluente, il Columbia, qualche chilometro a valle di Portland, era talmente rigoroso che nessuno dei due fiumi poteva salire di livello per più di venti centimetri, neppure dopo le più prolungate piogge torrenziali. Il Willamette era un utile elemento dell’ambiente, una specie di grande animale da tiro, enorme e docile, impastoiato da un’infinità di cinghie, catene, stanghe, selle, morsi, briglie. Se non fosse stato utile, ovviamente, sarebbe stato ricoperto di cemento, come le centinaia di torrentelli che correvano nell’oscurità sotto le strade e gli edifici cittadini. Ma, senza fiume, Portland non sarebbe stata un porto; le navi, le lunghe file di chiatte, le grandi masse di tronchi dovevano poterlo percorrere. Perciò i camion, i treni e i rari veicoli privati dovevano passare o sopra o sotto il fiume. Al di sopra delle teste di coloro che percorrevano il Broadway Tunnel sulla carrozza della metropolitana c’erano le tonnellate di roccia e pietrisco, le tonnellate di acqua corrente, le armature delle banchine e le chiglie delle navi oceaniche, i grossi piloni di cemento delle autostrade soprelevate e degli svincoli, una fila di camion a vapore carichi di polli di batteria surgelati, un aviogetto a 11.000 metri di quota, le stelle a distanze varie, dai 4,3 anni luce in su. George Orr, pallido nella tremolante luce al neon della vettura ferroviaria immersa nel buio infrafluviale, dondolava appeso all’impugnatura di acciaio di una maniglia, fra mille compagni di viaggio. Avvertiva il peso immane che lo sovrastava, la pressione che continuava eternamente a gravare sul tunnel. Vivo in un incubo, si disse, dal quale mi desto di tanto in tanto per dormire.

Gli urti e le spinte della gente che scendeva alla Union Station fugarono dalla sua mente questa importante considerazione; dovette dedicare tutta la sua attenzione alla difesa della maniglia. Nella sua condizione di malessere temeva che se l’avesse persa e si fosse dovuto affidare totalmente alla forza di affollamento (a), avrebbe vomitato nella vettura.

Il treno ripartì con uno sferragliamento composto in parti uguali da profondi, laceranti raschi e da cigolii acuti e stridenti.

L’intero sistema ferroviario metropolitano di Portland aveva soltanto quindici anni, ma era stato costruito tardi e in fretta, con materiali scadenti, nel corso — e non prima — del crollo dell’economia automobilistica. Anzi, proprio a Detroit erano state costruite le carrozze, e, sia per la durata, sia per il rumore, denunciavano chiaramente la loro origine. Orr, animale urbano e viaggiatore di metrò, non prestava orecchio allo sconvolgente frastuono, sia perché (malgrado i suoi trent’anni) le terminazioni nervose dei suoi organi dell’udito erano già notevolmente ottuse, sia perché quel fracasso non era altro che il normale accompagnamento sonoro dell’incubo. (Una volta consolidato il possesso della maniglia, Orr aveva ripreso il filo dei suoi pensieri.)

A partire da quando, volente o nolente, la cosa l’aveva toccato di persona, il fatto che la mente dimenticasse la maggior parte dei sogni l’aveva molto interessato. Il pensiero non cosciente — sia quello infantile, sia quello del sogno — non era disponibile, a quel che sapeva, alla memoria cosciente. Ma lui, Orr, era inconscio, durante l’ipnosi? Niente affatto: era completamente desto, finché non gli veniva ordinato di dormire. Perché allora non poteva ricordare? La cosa lo preoccupava. Si chiedeva che cosa stesse facendo Haber. Il primo sogno di quel pomeriggio, ad esempio; il dottore si era limitato a ordinargli di sognare ancora una volta il cavallo? E lo sterco di cavallo era quindi una sua aggiunta (il che risultava piuttosto imbarazzante)? Oppure, se era stato il dottore a indicare lo sterco, la cosa era ugualmente imbarazzante, ma in modo diverso. Forse Haber era stato fortunato a non trovarsi sul tappeto un’enorme pila di feci equine marroni e fumanti. Anche se, in un certo senso, era ciò che era accaduto effettivamente: la fotografia della montagna.

Orr si raddrizzò bruscamente, come impalato, mentre il treno entrava sferragliando nella stazione di Ander Street. La montagna, ripeté, mentre sessantotto persone urtavano, spingevano, pigiavano per imboccare l’uscita. La montagna. Mi ha ordinato di rimettere nel sogno la montagna. E io ho fatto ricostruire la montagna dal cavallo. Ma allora, se mi ha ordinato di rimettere sulla parete la montagna, Haber sapeva che era li prima del cavallo. Haber sapeva. Haber aveva visto che il primo sogno cambiava la realtà. Haber aveva assistito al cambio. Mi crede. Non sono pazzo!

Orr venne travolto da una tale ondata di gioia che, delle quarantadue persone che si erano costipate nello scompartimento durante la sua riflessione, le sette o otto che lo spingevano più da vicino godettero di qualche minuscola briciola della sua benevolenza e del suo sollievo. La donna che non era riuscita a rubargli la maniglia sentì — grazie a Dio — cessare un’acuta pressione su un callo; l’uomo spiaccicato sul suo fianco sinistro si ricordò tutt’a un tratto di quant’era bello un giorno di sole; il vecchio che sedeva rannicchiato davanti a lui dimenticò momentaneamente la fame.

Orr non era una persona che ragionasse in fretta. In realtà non ragionava affatto. Di solito arrivava alle idee nella maniera più lenta, senza mai azzardarsi a schettinare sul duro, trasparente ghiaccio della logica, senza mai veleggiare sulle correnti ascensionali dell’immaginazione, bensì avanzando a fatica, gravemente, sull’accidentato terreno dell’esistenza. Egli non vedeva le connessioni logiche, processo che pare essere il contrassegno dell’intelletto. Egli sentiva le connessioni: come uno stagnino. Non che fosse stupido: si trattava soltanto del fatto che usava il cervello a metà delle sue possibilità e a metà della sua velocità. Soltanto dopo essere sceso a Ross Island Bridge West, avere percorso vari isolati, essere salito con l’ascensore al diciottesimo piano, essere entrato nel suo appartamento monostanza 2 e 60 per 3 e 40 del Condominio Corbett (un casermone di venti piani in cemento armato senza nessun fronzolo, accessibile anche a chi campava col Sussidio Base: «Con Poca Spesa il Lusso del Centro»), avere messo nel forno a infrarossi una sottiletta di soia, avere preso una birra dal frigorifero pensile, essere rimasto per qualche tempo alla finestra (pagava un supplemento per avere un appartamento con vista) a rimirare il West Hill di Portland, gremito di torrioni illuminati, brulicante di lampioni e di vita, soltanto allora gli accadde di chiedersi: Perché il dottor Haber non mi ha detto di avere visto i miei sogni «efficaci»?

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