Lombra della maledizione
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Da una grande maestra della narrativa fantastica, pi? volte vincitrice del premio Hugo, un potente racconto di mistero, magia e tradimento. Il destino di un cavaliere, della sua stirpe e di un regno tormentato. Provato nel corpo e nello spirito da una lunghissima prigionia, il comandante Lupe dy Cazaril ritorna nel regno di Chalion, in cui aveva servito come paggio, e viene nominato tutore di Royesse, bella e intelligente sorella dell’erede al trono. Ma quell’occasione di riscatto si trasforma presto in un incubo, poich? Cazaril scopre che a corte proprio quegli uomini che lo hanno tradito ora occupano posti di grande potere. E scopre soprattutto che l’intera stirpe di Chalion ? gravata da una terribile maledizione, che non pu? essere annullata se non con la magia pi? nera…
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Sulla spinta di un’ispirazione improvvisa, Cazaril si ricordò poi del passaggio segreto che univa lo Zangre col palazzo dei dy Jironal, all’epoca in cui esso era stato di proprietà di Lord dy Lutez. Si diceva che Ias e dy Lutez lo usassero di giorno per le riunioni di Stato e di notte per gli appuntamenti amorosi. Cercò allora di capire dove fosse, ma ben presto scoprì che quel passaggio era segreto quanto la strada principale di Cardegoss, sorvegliato da guardie e difeso da porte sprangate. Tentò persino di corrompere un paio di guardie, ricevendone in cambio spinte, imprecazioni e la minaccia di altre percosse.
Sono davvero in gamba, come assassino, pensò con amarezza, mentre tornava barcollando verso la sua camera, al crepuscolo. Si lasciò cadere sul letto, gemendo, con la testa che pulsava e il corpo dolorante, rimanendo immobile per qualche tempo prima di riscuotersi quanto bastava per accendere una candela. Doveva salire al piano di sopra per controllare come stavano le dame, ma temeva di non poter reggere al loro pianto, né se la sentiva di riferire a Betriz il proprio fallimento e di fare fronte a ciò che lei gli avrebbe chiesto. Lui non era riuscito a uccidere Dondo, quindi che diritto aveva di stroncare sul nascere un tentativo da parte della fanciulla?
Morirei con gioia, se ciò impedisse l’abominio che si verificherà domani… pensò.
Dici sul serio?
Si sollevò a sedere di scatto, rigido, chiedendosi se quella voce che gli era echeggiata nella mente fosse effettivamente la sua. Be’, la lingua gli si era mossa leggermente dietro le labbra, come gli capitava di solito quando discuteva con se stesso. E la risposta era come… nata dentro di lui.
Sì.
Si portò ai piedi del letto e si lasciò cadere in ginocchio, aprendo il coperchio del baule e cominciando a frugare tra gli indumenti ripiegati e profumati con chiodi di garofano, a difesa dalle tarme, fino a trovare una sopravveste di velluto nero avvolta intorno a una veste di lana marrone… e a un librettino in codice al quale non aveva più pensato da quando il giudice corrotto era fuggito da Valenda. Gli venne in mente che non l’aveva neppure restituito al Tempio, frenato dalle imbarazzanti spiegazioni che avrebbe dovuto fornire per giustificare il ritardo con cui lo aveva consegnato. Con mosse febbrili, lo tirò fuori e accese altre candele. Non aveva molto tempo a disposizione, e quasi un terzo del volumetto era ancora da decifrare.
Lascia perdere tutti gli esperimenti falliti, e va’ all’ultima pagina, si disse.
A onta della rozzezza di quel codice, la disperazione del mercante di lana emergeva concreta da quelle pagine, con una sorta di strana, scintillante semplicità: abbandonando tutte le precedenti, bizzarre elaborazioni, il mercante aveva fatto ricorso alla pura e semplice preghiera, a un ratto e a un corvo come mezzi per trasmettere la sua supplica, alle candele come strumento per illuminare la via, alle erbe aromatiche per elevare il suo cuore col loro profumo. Queste ultime lo avrebbero aiutato a improntare la mente alla purezza della volontà nonché ad accantonare la volontà stessa, deposta spontaneamente come un’offerta sull’altare del Dio.
Aiutami. Aiutami. Aiutami.
Quelle erano le ultime tre parole annotate sul libretto.
Posso farlo anch’io, pensò Cazaril, con un senso di meraviglia.
E se avesse fallito… ci sarebbe stata pur sempre Betriz, col suo coltello.
Ma non fallirò, promise a se stesso. Nella mia vita, ho fallito in quasi ogni cosa. Però non fallirò nella morte.
Riposto il volumetto sotto il cuscino, chiuse a chiave la porta della stanza e andò in cerca di un paggio, scegliendo infine un ragazzo assonnato che era in attesa nel corridoio, pronto a sopperire alle esigenze dei nobili e delle dame che stavano cenando nella sala dei banchetti di Orico. In quel luogo, senza dubbio, la prolungata assenza di Iselle era oggetto di scottanti pettegolezzi, scambiati senza remore e a voce alta, dato che nessuno degli interessati era presente. Dondo stava infatti cenando nel suo palazzo, coi suoi amici, e Orico si trincerava ancora nel capanno di caccia.
Prelevato dalla borsa un reale d’oro, Cazaril lo mostrò al paggio, tenendolo bene in vista tra pollice e indice. «Senti, ragazzo!» chiamò. «Ti andrebbe di guadagnarti un reale?»
Per i paggi dello Zangre, la cautela era d’obbligo. E un reale d’oro era una somma sufficiente a comprare servizi assai intimi da coloro che erano disposti a venderli, ma anche da ispirare cautela in quelli che non amavano giochi simili. «Cosa dovrei fare, mio signore?» chiese quindi il ragazzo.
«Cattura un ratto per me.»
«Un ratto, mio signore? Perché?»
Ah, già, ci voleva una motivazione, e Cazaril non poteva certo dichiarare di voler mettere in atto una magia di morte ai danni del secondo nobile più potente di tutta Chalion. Appoggiatosi con le spalle alla parete, il Castillar sfoggiò un sorriso da cospiratore. «Quando mi trovavo nella fortezza assediata di Gotorget, tre anni fa, dov’ero il comandante, almeno finché il mio coraggioso generale non ci ha venduti tutti al nemico, abbiamo imparato a mangiare i ratti», spiegò. «Sono piccole creature saporite, se riesci a catturarne abbastanza da saziarti, e adesso sento un’acuta nostalgia del sapore di una bella coscetta di ratto arrostita sulla fiamma di una candela. Procurami un bel ratto grasso e avrai una seconda moneta come questa.» Lasciò cadere la moneta nella mano del paggio e si leccò le labbra con un’aria che doveva senza dubbio apparire folle, almeno a giudicare dal modo in cui il ragazzo prese a indietreggiare. «Sai dove si trova la mia camera?» domandò poi.
«Sì, mio signore.»
«Allora portami là il ratto, in un sacco, più in fretta che puoi, perché ho davvero fame», ribadì Cazaril e si allontanò, ridendo… Una risata vera, dovuta a una strana, selvaggia esaltazione che gli pervadeva il cuore.
Quello stato d’animo durò finché, nella sua stanza, non sedette sul letto per elaborare il resto del suo piano, quell’oscura preghiera che si sarebbe conclusa con un suicidio. Era notte, dunque il suo corvo non sarebbe venuto sul suo davanzale, neppure se avesse cercato di adescarlo col pezzo di pane prelevato nella sala dei banchetti, prima di tornare nella parte centrale del palazzo. Dal momento che i corvi avevano il loro nido nella Torre di Fonsa, doveva essere lui a strisciare fino a loro, passando per i tetti. C’era tuttavia il rischio di scivolare al buio… Senza contare la difficoltà di tornare nella propria camera con un fagotto stridente sotto il braccio.
No. Doveva andare col sacco in cui c’era il ratto. Se avesse fatto ciò che doveva lassù, avvolto dall’oscurità del tetto in rovina, un unico viaggio sarebbe bastato. E poi in quella torre la magia di morte aveva già funzionato una volta, in modo spettacolare, a favore del nonno di Iselle, no? Non c’era dunque da sperare che lo spirito di Fonsa fosse disposto ad aiutare l’empio soldato che stava difendendo sua nipote? La sua torre era un luogo temuto, sacro al Bastardo e ai suoi uccelli, soprattutto nel cuore della notte e sotto quella pioggia gelida… Lassù il suo corpo non sarebbe mai stato trovato, né avrebbe avuto bisogno di sepoltura. I corvi avrebbero banchettato coi suoi resti… Un equo scambio, considerato il sacrificio che lui intendeva richiedere a uno di essi. Dopotutto, gli animali erano creature innocenti, anche i macabri corvi, e senza dubbio quell’innocenza li rendeva tutti sacri, almeno in certa misura. Il paggio tornò molto più in fretta di quanto lui si aspettasse, portando un sacco dentro cui qualcosa si contorceva disperatamente. Controllato il contenuto — un ratto infuriato che pesava più di una libbra e mezzo -, Cazaril consegnò al ragazzo l’altra moneta. Dopo averla riposta in tasca, il paggio si allontanò lentamente lungo il corridoio, continuando a guardarsi indietro con aria dubbiosa.