American Gods
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Shadow si ? fatto tre anni dentro. Sta per uscire ma proprio il giorno prima di tornare in libert? lo informano che sua moglie e il suo migliore amico sono morti in un misterioso incidente. Sull’aereo che lo riporta a casa, Shadow fa conoscenza con un enigmatico Mister Wednesday che gli offre di lavorare per lui. Shadow finisce per accettare: un lavoro gli risolve il problema di cosa fare della sua vita, anche se gli arriva da un vecchio bevitore di Jack Daniel’s dall’aria poco raccomandabile. Il contratto con il losco Mr Wednesday viene annaffiato da una bevuta di idromele, ma Shadow ci metter? ancora qualche tempo per capire chi siano in realt? il suo boss, i suoi compagni in affari, i suoi concorrenti, e ancora pi? tempo per capire in che gioco sia finito. Il vecchio baro corpulento, l’improbabile seduttore di ragazzine, il gran mangiatore e bevitore, l’uomo dall’eloquio torrenziale e dalla risata tonitruante ? Odino, Votan, Grimnir, il Padre di ogni cosa, la somma divinit? del pantheon nordico, arrivato in America secoli e secoli fa con una nave di vichinghi. Come lo slavo Chernobog, ridotto a vivere della pensione maturata negli anni di lavoro al macello di Chicago, come l’africano Anansi, come la celtica Easter e la mediterranea Bilqis che batte i marciapiedi di Hollywood, come tutte le divinit? maggiori o minori, anche Odino tira a campare e conduce l’esistenza grama di un dio privo di adoratori, dimenticato, in un mondo che ne venera altri, pi? belli e nuovi. E’ per muovere battaglia contro i nuovi d?i americani, quelli dei mass-media, di Internet e delle carte di credito che Wednesday ha arruolato Shadow ed ? per reclutare i compagni di lotta fra i colleghi del vecchio mondo che i due si metteranno ’on the road’ attraversando in lungo e in largo l’America pi? profonda, quella delle cittadine spopolate, dei motel persi nel nulla, delle riserve indiane degradate: un’America arciamericana ma al tempo stesso lontanissimada quella dei Nuovi D?i. Alla fine di questo lungo vagabondaggio che ha tutte le caratteristiche di un viaggio iniziatico, ci sar? la battaglia di proporzioni epiche in cui si sfogher? un conflitto vecchio quanto l’uomo, una battaglia che ha per oggetto la conquista dell’anima stessa dell’America…
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Tutto questo e altro ancora narrò il signor Ibis quella notte in cucina. L’ombra che gettava sul muro era allungata come quella di un uccello, e man mano che il whiskey scorreva Shadow trovava sempre più facile immaginare che fosse la testa di un enorme uccello acquatico, il becco lungo e ricurvo, e fu a un certo punto a metà del secondo bicchiere che Mad Sweeney stesso cominciò ad aggiungere dettagli e particolari irrilevanti al racconto di Ibis («… e che ragazza, con il petto color crema, tutto coperto di lentiggini, con i capezzoli del rosa intenso dell’alba di un giorno in cui pioverà a catinelle prima di mezzodì ma nel pomeriggio splenderà il sole…») e poi si avventurò, ricorrendo a entrambe le mani, nella storia degli dèi irlandesi, giunti a ondate da Gallia, Spagna e chissà dove, che a ogni ondata successiva si trasformavano in troll e tutte le dannate creature, fino a quando la Santa Madre Chiesa non arrivò e senza preavviso trasformò tutti gli dèi d’Irlanda in fate, santi o in re morti…
Il signor Ibis pulì gli occhiali e spiegò — pronunciando le parole con una chiarezza e una precisione perfino maggiore del solito e rivelando con ciò di essere ubriaco (il modo di parlare e il sudore che gli imperlava la fronte nella casa fredda erano gli unici indizi del suo stato di ubriachezza) — agitando un indice ammonitore, che lui era un artista e che i suoi racconti non andavano considerati resoconti letterali ma creazioni della fantasia, più veri del vero. «Ti faccio vedere io la mia fantasia creativa» disse Mad Sweeney, «e con un pugno ti rifaccio quel muso di merda, tanto per cominciare», e il signor Jacquel ringhiò scoprendo i denti, il ringhio di un grosso cane che non vuole combattere ma che potrebbe attaccarti alla gola senza difficoltà, e Sweeney raccolse il messaggio e dopo essersi rimesso seduto si versò un altro bicchiere di whiskey.
«Ti è tornato in mente il mio trucchetto?» chiese a Shadow con un sorriso.
«No.»
«Se provi a indovinare» disse Mad Sweeney con le labbra di un rosso acceso e gli occhi azzurri offuscati «io ti aiuto.»
«Non è un palmaggio, vero?» chiese Shadow.
«Non lo è.»
«Adoperi qualche attrezzo? Qualcosa che infili nella manica o non so dove e che spara fuori le monete quando fai finta di prenderle al volo?»
«Non è un attrezzo. Qualcuno vuole ancora whiskey?»
«Ho letto in un libro che c’è un modo di eseguire il Sogno dell’Avaro con un guanto trasparente, facendo una specie di sacchetto color pelle dove si tengono le monete.»
«Oh che triste veglia per il Grande Sweeney venuto a volo d’uccello fin dall’Irlanda e che nella sua follia ha mangiato crescione: è morto e nessuno lo piange salvo un uccello, un cane e un cretino. No, non si tratta di una sacca nel guanto di gomma.»
«Be’, altre idee non me ne vengono» disse Shadow. «Secondo me le prendi dall’aria e basta.» L’aveva detto con sarcasmo, ma quando vide l’espressione di Sweeney aggiunse: «È così. Fai davvero così».
«Be’, non le prendo esattamente dall’aria. Ma ci sei vicino. Bisogna prenderle dalla riserva.»
«La riserva» ripeté Shadow che cominciava a ricordare. «Certo.»
«Devi soltanto tenerla a mente, e puoi attingerci finché ti pare. È il tesoro del sole. C’è nei momenti in cui il mondo produce un arcobaleno. C’è quando cominciano l’eclisse e la tempesta.»
E mostrò a Shadow come si faceva.
Questa volta Shadow capì.
La testa gli doleva e pulsava, e la lingua aveva la consistenza e il sapore della carta moschicida. Shadow socchiuse gli occhi per difendersi dalla luce. Si era addormentato con la testa appoggiata sul tavolo della cucina; era vestito di tutto punto, anche se chissà quando doveva essersi levato la cravatta.
Scese nell’obitorio nel seminterrato e fu sollevato, anche se non sorpreso, di vedere che Tizio era ancora seduto sul tavolo dell’imbalsamazione. Prese la bottiglia vuota di Jameson Gold dalle dita bloccate dal rigor mortis e la gettò via. Al piano di sopra qualcuno si stava muovendo.
Quando Shadow tornò in cucina, seduto al tavolo trovò Wednesday intento a divorare con un cucchiaio di plastica gli avanzi dell’insalata di patate da un contenitore. Indossava un vestito grigio scuro, una camicia bianca e una cravatta color ferro: il sole del mattino scintillava sulla spilla d’argento a forma d’albero. Vedendo Shadow sorrise.
«Ah ragazzo mio, mi fa piacere vedere che sei sveglio. Credevo che saresti andato avanti a dormire per sempre.»
«Mad Sweeney è morto.»
«L’ho saputo» disse Wednesday. «Un vero peccato. Naturalmente presto o tardi toccherà a tutti.» Fece il gesto di dare uno strattone a una corda immaginaria, più o meno a livello dell’orecchio, poi piegò la testa di lato tirando fuori un palmo di lingua e strabuzzando gli occhi. Per essere una rapida pantomima, fu piuttosto inquietante. Poi lasciò andare la corda immaginaria e sorrise con la sua solita smorfia. «Vuoi un po’ di insalata di patate?»
«Preferirei di no.» Shadow diede un’occhiata intorno e verso l’ingresso. «Sai dove sono Ibis e Jacquel?»
«Ma certo. Stanno seppellendo la signora Lila Goodchild, un’attività nella quale avrebbero gradito il tuo aiuto ma io ho chiesto che non ti svegliassero. Ti aspetta un lungo viaggio.»
«Siamo in partenza?»
«Appena sei pronto.»
«Mi piacerebbe salutarli.»
«I saluti sono un genere sopravvalutato. Li rivedrai, non ne dubito, prima che questa faccenda sia conclusa.»
Per la prima volta dopo la sua prima notte nella casa, Shadow notò la gatta, acciambellata nella cesta. L’animale aprì gli occhi color ambra e rimase a guardarlo uscire con aria indifferente.
Così Shadow lasciò la casa dei morti. Gli alberi e gli arbusti, coperti di brina, sembravano isolati dalla realtà, presenze oniriche. Sul sentiero si scivolava.
Wednesday lo precedette verso la Chevy Nova bianca di Shadow, parcheggiata sul ciglio della strada. Era stata pulita di recente e qualcuno aveva sostituito le targhe del Wisconsin con altre del Minnesota. I bagagli di Wednesday erano già stati caricati sul sedile posteriore. Wednesday aprì la portiera con un duplicato della chiave che Shadow aveva in tasca.
«Guido io» disse. «Ci vorrà almeno un’ora prima che tu sia in grado di renderti utile.»
Si diressero a nord, tenendosi il Mississippi a sinistra, un largo nastro d’argento sotto il cielo grigio. Appollaiato su un albero spoglio e spettrale lungo la strada Shadow vide un enorme sparviero bianco e marrone che li fissava con sguardo da folle, e quando furono più vicini spiegò le ali e si alzò in un volo circolare, possente.
Shadow si rendeva conto che quel periodo nella dimora dei morti era stato solo una sospensione momentanea; cominciava già a sembrargli un evento accaduto a qualcun altro, tanto tempo prima.
Parte seconda
Il mio Ainsel