Il Maestro e Margherita
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Margherita guardò di sottecchi la scritta, chiedendosi che cosa potesse significare la parola «Dramlit». Presa la spazzola sotto il braccio, essa penetrò nell’atrio urtando con la porta il guardaportone meravigliato e sulla parete a fianco dell’ascensore scorse un’enorme lavagna nera che recava scritti in bianco i numeri degli appartamenti e i cognomi degli inquilini. La scritta «Casa del drammaturgo e del letterato» che sormontava l’elenco strappò a Margherita un grido soffocato di cupidigia. Si alzò un po’ di piú in aria e cominciò a leggere avidamente i cognomi: Chustov, Dvubratskij, Kvant, Beskudnikov, Latunskij
— Latunskij! — strillò Margherita. — Latunskij! Ma è proprio lui… è quello che ha rovinato il Maestro!
Il guardaportone davanti all’ingresso, sbarrando gli occhi e saltellando addirittura dallo stupore, guardava la lavagna nera, sforzandosi di capire per quale prodigio l’elenco degli inquilini avesse improvvisamente cacciato uno strillo.
Nel frattempo, però, Margherita aveva già cominciato a volare con impeto su per le scale ripetendo come inebriata:
— Latunskij ottantaquattro… Latunskij ottantaquattro…Ecco a sinistra l’ottantadue, a destra l’ottantatre, poi ancora piú in alto, a sinistra, l’ottantaquattro! Ci siamo! Ed ecco anche il biglietto da visita: «O. Latunskij».
Margherita saltò giú dalla spazzola e il pianerottolo di pietra le rinfrescò piacevolmente le piante dei piedi accaldate. Suonò una volta, due. Ma nessuno apriva. Margherita si mise a premere piú forte il bottone e sentí lei stessa lo scampanellio che echeggiava nell’appartamento di Latunskij. Sí, colui che occupava l’appartamento n. 84 all’ottavo piano doveva essere grato fino alla morte al defunto Berlioz perché il presidente del MASSOLIT era finito sotto un tram e perché la seduta commemorativa era stata fissata appunto per quella sera. Era nato sotto una buona stella, il critico Latunskij, essa l’aveva salvato dall’incontro con Margherita, divenuta una strega quel venerdí.
Nessuno veniva ad aprire. Allora Margherita volò giú a tutto gas, contando via via i piani, arrivò da basso, irruppe nella via e, guardando in alto, contò e controllò i piani da fuori, chiedendosi quali fossero precisamente le finestre dell’appartamento di Latunskij. Non c’era dubbio, erano le cinque finestre buie all’angolo dell’edificio, all’ottavo piano. Quando l’ebbe accertato, Margherita si alzò in aria e pochi secondi dopo essa entrava dalla finestra aperta in una stanza non illuminata in cui s’inargentava soltanto un’esigua passatoia di chiaro di luna. Margherita la percorse, trovò a tastoni l’interruttore. Un minuto dopo tutto l’appartamento era illuminato. La spazzola stava in un angolo. Assicuratasi che non c’era nessuno in casa, Margherita aprí l’uscio delle scale e controllò se c’era quel biglietto da visita. Il biglietto c’era, Margherita l’aveva imbroccata. Già, si dice che ancora adesso il critico Latunskij impallidisca al ricordo di quella terribile sera e che pronunzi con venerazione il nome di Berlioz. S’ignora del tutto da quale fosco e infame delitto sarebbe stata contrassegnata quella sera: al ritorno dalla cucina Margherita si trovò tra le mani un pesante martello.
La nuda e invisibile volatrice si frenava e si esortava alla calma le mani le tremavano dall’impazienza. Mirando attentamente essa colpí la tastiera del pianoforte e per tutto l’appartamento si diffuse il primo urlo lamentoso. Gridava disperatamente il Becker a mezza coda che era del tutto innocente. I suoi tasti sprofondavano, i rivestimenti di osso volavano da ogni parte. Lo strumento rimbombava ululava, rantolava, tintinnava. Con un rumore che pareva quello di una rivoltellata, sotto il colpo del martello si spaccò la parte superiore, tirata a lucido, della cassa armonica. Ansimando, Margherita strappò e fracassò le corde col martello. Infine, stanca morta, si lasciò cadere di schianto su una poltrona per ripigliar fiato.
Nel bagno l’acqua rombava e cosí pure in cucina. «Credo che cominci già a scorrere sul pavimento…», pensò Margherita, e aggiunse ad alta voce:
— Però non è il caso di trattenersi a lungo.
Dalla cucina un torrente scorreva già nel corridoio. Guazzando a piedi nudi nell’acqua. Margherita portò secchi d’acqua dalla cucina nello studio del critico versandoli nei cassetti della scrivania. Poi, demolita col martello la porta della libreria in quello stesso studio, Margherita corse nella camera da letto. Dopo aver rotto l’armadio a specchio, ne tirò fuori un completo del critico e l’annegò nel bagno. Sul soffice, rigonfio letto a due piazze, vuotò tutto il calamaio che aveva preso nello studio.
La devastazione che essa andava operando le procurava un ardente piacere, ma ciononostante perdurava in lei l’impressione che i risultati fossero alquanto miseri. Si diede quindi a lavorare a casaccio. Prese a spaccare i grandi vasi di ficus nella stanza dove c’era il pianoforte, ma senza aver portato a termine la sua opera, tornò in camera da letto e con un coltello da cucina tagliò le lenzuola, mandò in frantumi le fotografie sotto vetro. Pur non sentendosi stanca, era grondante di sudore.
Intanto, nell’appartamento n. 82, sottostante quello di Latunskij, la cameriera del drammaturgo Kvant prendeva il tè in cucina, chiedendosi che cosa fossero quel fracasso, quel correre su e giú e quel tintinnio che provenivano dal piano di sopra. Alzò il capo verso il soffitto e s’accorse a un tratto che sotto i suoi occhi esso veniva mutando il suo color bianco, in un altro, cadaverico, bluastro. La macchia si allargava a vista d’occhio, e all’improvviso delle grosse gocce spuntarono sul soffitto. Per un paio di minuti la cameriera rimase seduta, meravigliandosi di questo fenomeno, finché dal soffitto cominciò a venir giú una vera pioggia che batteva sul pavimento. In quel punto essa balzò in piedi, mise una bacinella sotto lo zampillo la qual cosa non serví a nulla, giacché la pioggia si estendeva e cominciava ad allagare anche il fornello a gas e la tavola ingombra di stoviglie. Allora, gettando un grido, la cameriera di Kvant scappò sulle scale e subito dopo in casa di Latunskij cominciò a squillare il campanello.
— Già, hanno cominciato a suonare… È ora di andarsene, — disse Margherita. Si sedette a cavallo della spazzola, ascoltando una voce femminile che gridava attraverso il buco della serratura:
— Aprite! Aprite! Dusja, apri! Scorre l’acqua da voi? Noi siamo inondati!
Margherita si alzò di un metro e menò un colpo al lampadario. Due lampadine andarono in pezzi e le gocce di cristallo schizzarono da ogni parte. Le grida attraverso il buco cessarono, si sentí uno scalpiccio sulle scale. Margherita volò alla finestra, scivolò fuori, prese un piccolo slancio e col martello menò un colpo sul vetro. Esso esalò un singhiozzo e le schegge corsero giú come una cascata lungo il muro rivestito di marmo. Margherita volò verso la finestra seguente. Laggiú in basso qualcuno si mise a correre sul marciapiede, una delle due macchine ferme davanti all’ingresso azionò la sirena e partí.
Finito che ebbe con le finestre di Latunskij, Margherita volò verso quelle dell’appartamento attiguo. I colpi cominciarono a farsi piú frequenti, il vicolo si riempí di suoni e di fracasso. Dal primo ingresso uscí di corsa il guardaportone, guardò in su, esitò un po’, non sapendo lí per lí quel che doveva fare, poi si mise il fischietto in bocca e si diede a fischiare disperatamente. Piú che mai infervorata da quel fischio, Margherita frantumò il vetro dell’ultima finestra dell’ottavo piano, poi scese al settimo e anche lí cominciò a spezzare i cristalli.
Estenuato dal lungo oziare dietro i vetri della porta d’ingresso, il guardaportone metteva tutta l’anima nel suo fischio, e intanto osservava con attenzione Margherita, come per accompagnare musicalmente le sue mosse. Negli intervalli, quando essa volava da una finestra all’altra, lui riprendeva fiato, e a ogni colpo di Margherita, gonfiava le guance e fischiava freneticamente, trapassando fino al cielo l’aria notturna.