City
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Questo libro narra la storia dell’Uomo e del suo pianeta, la Terra, attraverso i secoli futuri, in una progressione abbagliante di visioni. indimenticabili e poetiche; ? l’opera che moltissimi considerano il momento pi? intensamente poetico di tutta la storia della fantascienza. Con la sua quieta, serena filosofia, con la sua magica capacita di evocare situazioni e paesaggi allo stesso tempo grandiosi e a perfetta,’ misura umana, Simak ci descrive dapprima il graduale abbandono delle citta, per una pi? serena vita nelle campagne; e poi ci accompagna nella descrizione della lenta espansione verso gli spazi cosmici, ci mostra la comparsa dei Mutanti, enigmatici figli della razza umana che di umano conservano solo una spietata, folle ironia, ci descrive il lento passaggio dell’eredita umana ai Cani, fedeli compagni dell’Uomo per millenni, ci parla dei robot che l’uomo ha creato a propria: immagine, e degli alieni che popolano i suoi sogni cosmici. E, attraverso la rivelazione di un nuovo e totalmente inaspettato piano di, esistenza su Giove, il gigantesco pianeta che sar? il nuovo Paradiso… o il nuovo Nirvana?… per tutto il genere umano, Simak si proietta nel buio dei millenni, quando l’intera razza umana sar? ricordata con il nome di una sola famiglia, i Webster, e l’antica casa sulla collina sar? un tempio e un memoriale lentamente dimenticato. E su tutto questo grandioso affresco di figure indimenticabili, gigantesca, si staglia la figura del pi? grande personaggio creato da uno scrittore di fantascienza: Jenkins, il robot antico, che nei suoi circuiti elettronici si aggrappa disperatamente al ricordo dell’umanit? desiderata e perduta.
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Joshua si diede un altro scrollone.
«Sì, immagino che tu abbia ragione. È un grande giorno per Jenkins, Ichabod. Pensaci… settemila anni.»
«Io sono prontissimo,» disse Ichabod, orgoglioso. «Mi sono dato una bella lucidata, stamattina, ma tu hai bisogno di una buona spazzolata. Hai tutto il pelo arricciato.»
«Settemila anni,» disse Joshua. «Io non vorrei vivere così a lungo.»
Settemila anni e settemila mondi che si susseguivano uno all’altro, uno sulle orme del precedente, all’infinito. Ma certo erano di più. Un mondo al giorno, forse. Trecentosessantacinque volte settemila. O forse un mondo al minuto. O forse ancora, perfino un mondo al secondo. Un secondo era una cosa grossa… abbastanza grossa da separare due mondi, abbastanza ampia da contenere due mondi. Trecentosessantacinque volte settemila volte ventiquattro volte sessanta…
Una cosa grossa e una cosa definitiva. Perché il passato non c’era. Non si poteva tornare indietro. Non c’era modo di ripercorrere a ritroso la corrente del grande fiume, per scoprire la verità sulle cose delle quali Jenkins parlava… le cose che avrebbero potuto essere vere, o che avrebbero potuto essere il prodotto di una memoria confusa da settemila anni di pensieri. Non si poteva tornare indietro per scoprire la verità sulle nebulose leggende che parlavano di una casa e di una famiglia di Webster e di una cupola chiusa di nulla ch’era acquattata torva sulle montagne di là dal mare.
Ichabod avanzò verso di lui con un pettine e una spazzola, e Joshua sobbalzò e cercò di raggomitolarsi al suolo.
«Ah, che sciocchezze,» disse Ichabod. «Una spazzolata non ti farà male.»
«L’ultima volta,» disse Joshua, «Per poco non mi hai scuoiato vivo. Vacci piano, mi raccomando.»
Il lupo era venuto, sperando in uno spuntino fuori programma, ma lo spuntino non gli era stato offerto, e il lupo era troppo educato per chiederlo. Così adesso sedeva, con la grande coda cespugliosa elegantemente avvolta intorno alle zampe, e guardava Peter, il quale lavorava con il coltello sulla sottile bacchetta di legno.
Ghianda, lo scoiattolo, si lanciò dal ramo di un albero sovrastante, e si posò leggero sulla spalla di Peter.
«Cosa stai facendo?» domandò.
«Un bastone da lancio,» disse Peter.
«Tu puoi lanciare tutti i bastoni che vuoi,» disse il lupo. «Non hai bisogno di prepararne uno apposta. Basta che tu raccolga il primo bastone che vedi, e poi lo lanci.»
«Questa è una cosa nuova,» spiegò Peter. «Una cosa che ho pensato io. Una cosa che ho fatto io. Ma non so di che si tratta.»
«Non ha un nome?» domandò Ghianda.
«Non ancora,» disse Peter. «Dovrò pensarne uno.»
«Ma,» insisté il lupo, «Tu puoi lanciare un bastone quando e come vuoi. Non hai bisogno di farne uno apposta.»
«Non così lontano,» disse Peter. «Non con tanta forza.»
Peter rigirò la bacchetta tra le dita, accarezzandone la liscia rotondità, la sollevò e se la portò all’altezza di un occhio, per vedere se era ben diritta.
«Non lo lancio con il braccio,» disse Peter. «Lo lancio con un altro bastone e con una corda.»
Si protese a raccogliere l’oggetto che aveva appoggiato al tronco dell’albero.
«Quello che non riesco a capire,» disse Ghianda, «È il motivo per cui tu voglia lanciare un bastone.»
«Non lo so,» disse Peter. «È divertente. È come un gioco.»
«Voi webster,» disse il lupo, con fare severo, «Siete degli strani animali. A volte mi chiedo se abbiate buon senso.»
«Puoi colpire qualunque punto tu prenda di mira,» disse Peter. «Se il bastone da lancio è diritto e la corda è buona. Non si può raccogliere semplicemente il primo pezzo di legno che si vede. Bisogna cercare e cercare…»
«Fammi vedere,» disse Ghianda.
«Si fa così,» disse Peter, sollevando il ramo di noce. «Lo vedi? È duro e flessibile. Se lo pieghi, scatta e torna diritto. Ho legato assieme le due estremità con una corda; fatto questo, basta collocare il bastone da lancio in questa posizione, così, con un’estremità appoggiata alla corda, e poi tirare indietro il bastone, così, e…»
«Hai detto che puoi colpire tutto quello che vuoi,» disse il lupo. «Avanti, facci vedere.»
«Che cosa devo colpire?» domandò Peter. «Scegliete voi. Ditemelo, e…»
Ghianda puntò la zampa, tutto eccitato.
«Quel pettirosso appollaiato sull’albero, guarda!»
Rapidamente, Peter alzò le mani, tirò indietro il bastone, e la corda fece piegare ad arco il ramo di noce. Il bastone da lancio sibilò nell’aria. Il pettirosso cadde dal ramo, in una pioggia di piume. L’animaletto colpì il terreno con un tonfo sordo e sommesso, e giacque immobile, supino… con le minuscole zampe impotenti e rattrapite puntate verso la cima degli alberi. Un filo di sangue gli colò dal becco e macchiò la foglia che aveva sotto il capo.
Ghianda si irrigidì sulla spalla di Peter, e il lupo balzò eretto sulle quattro zampe. E ci fu silenzio, il silenzio delle foglie immobili, delle nubi che galleggiavano nel cielo azzurro del pomeriggio.
L’orrore rese quasi incomprensibili le parole di Ghianda.
«L’hai ucciso! È morto! Tu l’hai ucciso.»
Peter protestò, paralizzato dalla paura.
«Io non sapevo. Non avevo mai cercato di colpire delle creature vive, prima d’ora. Ho semplicemente scagliato il bastone contro dei bersagli tra gli alberi…»
«Ma tu l’hai ucciso. E non si deve mai uccidere.»
«Lo so,» disse Peter. «Lo so che non si deve mai uccidere. Ma sei stato tu a dirmi di tirare. Sei stato tu a mostrarmi il pettirosso. Sei stato tu…»
«Ma io non volevo che tu l’uccidessi,» strillò Ghianda. «Credevo che l’avresti soltanto sfiorato. Per fargli prendere un po’ di paura. Era così grasso e pigro e…»
«Te l’avevo detto che il bastone andava veloce, che aveva molta forza.»
Il webster sembrava avere messo radici nel terreno, sembrava incapace di muoversi.
Lontano e con forza, pensò. Lontano e con forza… e veloce.
«Andiamo, non prendertela tanto, amico,» disse il lupo con voce gentile. «Sappiamo che non volevi farlo. La cosa rimarrà fra noi tre. Non diremo mai una parola a nessuno.»
Ghianda saltò via dalla spalla di Peter, raggiunse il ramo dell’albero e strillò:
«Io lo dirò,» I suoi strilli si fecero ancora più forti. «Io lo dirò, lo dirò, lo dirò! Andrò a dirlo a Jenkins.»
Il lupo ringhiò, preso da una collera improvvisa, gli occhi rossi e cattivi.
«Sudicio, piccolo piagnone. Lurida spia.»
«Lo farò, lo farò,» strillò Ghianda. «Vedrai se non lo farò. Aspetta e vedrai. Andrò a dirlo a Jenkins.»
Si arrampicò sull’albero, camminò veloce su un ramo, e da quello si lanciò sul ramo di un albero vicino.
Il lupo si mosse veloce.
«Aspetta,» disse Peter, seccamente.
«Non può fare tutta la strada camminando sugli alberi,» disse il lupo, in fretta. «Dovrà scendere per attraversare il prato. Non devi preoccuparti di niente.»
«No,» disse Peter. «Non voglio altre uccisioni. Una sola è abbastanza.»
«Parlerà, lo sai anche tu.»
Peter annuì.
«Sì, sono sicuro che parlerà.»
«Io potrei impedirgli di parlare.»
«Qualcuno ti vedrebbe e andrebbe a dirlo a Jenkins, e sarebbe peggio per te,» disse Peter. «No, Lupo, non ti permetterò questo.»
«Allora farai bene a scappare,» disse Lupo. «Conosco un posticino dove potrai nasconderti. Non ti troveranno mai, neanche se cercassero per mille anni.»
«Non riuscirei a cavarmela,» disse Peter. «Ci sono molti occhi che guardano, nei boschi. Troppi occhi. Sarebbero loro a vedermi, e tutti saprebbero dove sono andato. Sono passati i giorni in cui ci si poteva nascondere.»
«Forse hai ragione,» disse il lupo, lentamente. «Sì, penso che tu abbia ragione.»
Si voltò a guardare il corpicino inanimato del pettirosso.
«Che ne diresti se ci liberassimo della prova?» chiese.
«La prova…»