City
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Questo libro narra la storia dell’Uomo e del suo pianeta, la Terra, attraverso i secoli futuri, in una progressione abbagliante di visioni. indimenticabili e poetiche; ? l’opera che moltissimi considerano il momento pi? intensamente poetico di tutta la storia della fantascienza. Con la sua quieta, serena filosofia, con la sua magica capacita di evocare situazioni e paesaggi allo stesso tempo grandiosi e a perfetta,’ misura umana, Simak ci descrive dapprima il graduale abbandono delle citta, per una pi? serena vita nelle campagne; e poi ci accompagna nella descrizione della lenta espansione verso gli spazi cosmici, ci mostra la comparsa dei Mutanti, enigmatici figli della razza umana che di umano conservano solo una spietata, folle ironia, ci descrive il lento passaggio dell’eredita umana ai Cani, fedeli compagni dell’Uomo per millenni, ci parla dei robot che l’uomo ha creato a propria: immagine, e degli alieni che popolano i suoi sogni cosmici. E, attraverso la rivelazione di un nuovo e totalmente inaspettato piano di, esistenza su Giove, il gigantesco pianeta che sar? il nuovo Paradiso… o il nuovo Nirvana?… per tutto il genere umano, Simak si proietta nel buio dei millenni, quando l’intera razza umana sar? ricordata con il nome di una sola famiglia, i Webster, e l’antica casa sulla collina sar? un tempio e un memoriale lentamente dimenticato. E su tutto questo grandioso affresco di figure indimenticabili, gigantesca, si staglia la figura del pi? grande personaggio creato da uno scrittore di fantascienza: Jenkins, il robot antico, che nei suoi circuiti elettronici si aggrappa disperatamente al ricordo dell’umanit? desiderata e perduta.
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Esattamente come l’antica mappa aveva indicato.
Jon Webster scosse il capo, pensando, Avrei dovuto saperlo che ci sarebbe stata. La mappa aveva ragione. La mappa ricordava. Siamo stati noi a dimenticare… a dimenticare, o a non avere mai saputo, o a non averci mai pensato. Forse a non averci mai dato importanza. E sapeva che quest’ultima ipotesi doveva essere quella giusta, perché loro non se ne erano mai curati. Perché loro non ci avevano mai pensato.
Anche se, probabilmente, pochissimi oltre a lui avevano mai saputo dell’esistenza di quella cripta. Non l’avevano mai saputo perché era bene che pochi, pochissimi sapessero. Il fatto che essa non fosse mai stata usata non spiegava il suo abbandono. Doveva esserci stato un giorno, un tempo…
Fissò il pannello, meditabondo. Lentamente, alzò di nuovo la mano e poi la lasciò ricadere sul fianco. Meglio di no, si disse, meglio di no. Perché la mappa non gli aveva offerto alcun indizio sulla funzione della cripta, sulla funzione dell’interruttore.
«Difesa,» aveva detto la mappa, e questo era stato tutto.
Difesa! Certo, avrebbe dovuto esserci una difesa, in quei giorni lontani di mille anni prima. Una difesa della quale mai c’era stato bisogno, ma una difesa necessaria, una difesa contro ogni eventualità che fosse scaturita dall’incertezza, perché anche allora l’amicizia, la fratellanza tra i popoli e tra i singoli uomini erano state cose precarie, costruzioni fragili e traballanti che una sola parola e una sola azione avrebbero potuto sconvolgere, compromettendone per sempre l’equilibrio. Anche dopo dieci secoli di pace, il ricordo della guerra era stato una cosa viva… una possibilità sempre presente alla mente della Commissione Mondiale, una possibilità da temere e da evitare, una possibilità alla quale bisognava essere sempre pronti.
Webster rimase ritto e immobile di fronte al pannello, ascoltando il pulsare lento del cuore della storia, che si udiva vicinissimo in quella stanza silenziosa. La storia, che aveva raggiunto la fine della strada, e aveva scoperto che si trattava di un vicolo cieco… una corrente che si era gettata impetuosa contro una diga e aveva formato uno stagno di poche centinaia di futili vite umane, e che ora era uno stagno torbido e immobile, sulla cui superficie non si agitavano le onde delle lotte e dei trionfi umani.
Allungò la mano, e l’appoggiò alla parete di pietra, e sentì il freddo viscido, lo strisciare sottile della polvere sotto la sua carne.
Le fondamenta dell’impero, pensò. I sotterranei dell’impero. La pietra più nascosta e segreta, la prima pietra della costruzione torreggiante che svettava in tutta la sua forza orgogliosa sulla superficie, sopra di lui, molto in alto… un grande edificio che nei tempi antichi aveva pulsato e brulicato di vita e di lavoro, della vita e del lavoro di un intero sistema solare, un impero non nel senso della conquista, ma un impero di ordinati rapporti umani basati sul rispetto reciproco e sulla comprensione e sulla tolleranza.
La sede del governo umano avrebbe guadagnato fiducia e tranquillità solo in virtù della consapevolezza psicologica dell’esistenza di una difesa adeguata e invalicabile. Perché doveva trattarsi di una difesa adeguata e sicura, era necessario che fosse così. Gli uomini di quei tempi non correvano rischi, non trascuravano nessuna possibilità. Si erano formati a una scuola dura, e sapevano come procedere e dove procedere e quali mezzi impiegare per procedere con più sicurezza.
Lentamente, molto lentamente, Webster si voltò, e abbassò lo sguardo per fissare le orme che i suoi piedi avevano tracciato nella polvere. Silenziosamente, muovendosi con prudenza, seguendo la pista che lui aveva tracciato, Webster lasciò la cripta, chiuse alle sue spalle la porta massiccia e fece scattare la serratura dalla combinazione automatica che aveva conservato per tanti secoli quel riposto segreto.
Salendo per la scala a spirale, pensò, Adesso posso scrivere la mia storia. I miei appunti sono quasi completi, e so come devo procedere, e so quali argomenti trattare. Sarà un’opera brillante ed esauriente, e potrebbe anche essere interessante, se qualcuno volesse leggerla.
Ma sapeva che nessuno l’avrebbe letta. Sapeva che nessuno avrebbe voluto perdere tempo a leggerla. Sapeva che nessuno se ne sarebbe curato.
Per un lungo istante Webster si fermò sull’ampia scalea di marmo che adornava la sua casa, e guardò la strada. Una bella strada, si disse, la più bella strada di tutta Ginevra, con i suoi grandi viali alberati, le sue aiuole fiorite, i marciapiedi che brillavano stupendi, accuditi notte e giorno dai robot che non si stancavano mai di lavorare.
Non si vedeva nessuno per la strada, e questo non era strano. I robot avevano terminato il loro lavoro presto, quel giorno, e c’erano pochi uomini.
Dall’alto di qualche cima d’albero un uccello fece udire la sua canzone, e la canzone era una nota che si fondeva col canto del sole e dei fiori, una canzone felice che sgorgava da una gola ardente, una canzone che vibrava e tremava di una gioia senza confini.
Una grande, bella strada addormentata sotto il sole, e una grande città orgogliosa che aveva perduto il suo scopo. Una strada che avrebbe dovuto essere piena di bambini spensierati e di coppie d’innamorati a passeggio e di vecchi che si riposavano sotto il sole. E una città, l’ultima città della Terra, la sola città della Terra, che avrebbe dovuto essere piena di rumore e di lavoro e di vita.
Un uccello cantava e un uomo indugiava sulla scalea di marmo e guardava i tulipani che chinavano il capo beatamente al passaggio della lieve brezza profumata che accarezzava le strade.
Webster si voltò e aprì la porta, e varcò la soglia.
La sala era silenziosa e solenne, e ricordava una cattedrale, con le sue finestre di vetro colorato e i tappeti soffici. Il legno antico riluceva della patina dei secoli e l’argento e l’ottone mandavano brevi scintille quando la luce che pioveva dalle finestre alte e sottili li toccava. Sopra il grande caminetto era appeso un quadro massiccio, dipinto in colori tenui e sommessi… una casa su una collina, una casa che aveva messo radici nella terra e si aggrappava alla terra con una stretta gelosa e possessiva. Del fumo usciva dal comignolo, strisce sottili di fumo frustato dal vento, fumo tenue che si confondeva in un grigio cielo di tempesta.
Webster attraversò lentamente la stanza e i suoi passi non si udirono nel silenzio. I tappeti, pensò, i tappeti proteggono la quiete di questo luogo. Randall voleva rifare anche questa stanza, anche il mio studio, ma io non gli ho permesso di toccarlo e ne sono lieto. Un uomo deve conservare qualcosa di antico, qualcosa a cui si possa aggrappare, qualcosa che rappresenti un’eredità e una missione e una promessa.
Raggiunse la sua scrivania, sfiorò col dito un soprammobile, e la luce si accese. Lentamente, sedette su una poltrona, allungò la mano per prendere un incartamento di appunti. Lo aprì e lesse la prima pagina, dove figurava il titolo: «Studio dello Sviluppo Funzionale della Città di Ginevra.»
Un bel titolo. Dignitoso ed erudito. E tanto, tanto lavoro. Venti anni di lavoro. Venti anni passati a frugare tra vecchi documenti polverosi, venti anni di studi e letture e confronti, di valutazione del peso e delle parole di coloro che erano venuti prima, di correzioni e di cancellature e di elaborazione dei fatti, venti anni trascorsi a tracciare la strada percorsa non solo dalla città, ma dagli uomini. Nessuna divinizzazione di inesistenti eroi, nessuna concessione al mito, nessuna leggenda, ma soltanto fatti. E i fatti sono difficili da rintracciare.
Qualcosa frusciò. Non furono dei passi, ma un fruscio, la sensazione che qualcuno era vicino. Webster sollevò lo sguardo. Un robot era in piedi, appena fuori del circolo di luce che irradiava dalla scrivania.