City
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Questo libro narra la storia dell’Uomo e del suo pianeta, la Terra, attraverso i secoli futuri, in una progressione abbagliante di visioni. indimenticabili e poetiche; ? l’opera che moltissimi considerano il momento pi? intensamente poetico di tutta la storia della fantascienza. Con la sua quieta, serena filosofia, con la sua magica capacita di evocare situazioni e paesaggi allo stesso tempo grandiosi e a perfetta,’ misura umana, Simak ci descrive dapprima il graduale abbandono delle citta, per una pi? serena vita nelle campagne; e poi ci accompagna nella descrizione della lenta espansione verso gli spazi cosmici, ci mostra la comparsa dei Mutanti, enigmatici figli della razza umana che di umano conservano solo una spietata, folle ironia, ci descrive il lento passaggio dell’eredita umana ai Cani, fedeli compagni dell’Uomo per millenni, ci parla dei robot che l’uomo ha creato a propria: immagine, e degli alieni che popolano i suoi sogni cosmici. E, attraverso la rivelazione di un nuovo e totalmente inaspettato piano di, esistenza su Giove, il gigantesco pianeta che sar? il nuovo Paradiso… o il nuovo Nirvana?… per tutto il genere umano, Simak si proietta nel buio dei millenni, quando l’intera razza umana sar? ricordata con il nome di una sola famiglia, i Webster, e l’antica casa sulla collina sar? un tempio e un memoriale lentamente dimenticato. E su tutto questo grandioso affresco di figure indimenticabili, gigantesca, si staglia la figura del pi? grande personaggio creato da uno scrittore di fantascienza: Jenkins, il robot antico, che nei suoi circuiti elettronici si aggrappa disperatamente al ricordo dell’umanit? desiderata e perduta.
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Niente di sensazionale. Niente di roboante, per le prime pagine e per i titoli di scatola. Niente che potesse cambiare l’ordine dei programmi dei mezzi d’informazione.
«E Jon Culver mi ricorda,» disse Webster, «Di fare presente ai signori rappresentanti della stampa che oggi ricorre il centoventicinquesimo anniversario dell’ultimo omicidio commesso nell’intero Sistema Solare. Centoventicinque anni senza una sola morte causata da un atto di violenza premeditato.»
Si appoggiò allo schienale della poltrona e sorrise ai giornalisti, mascherando con quel sorriso la cosa che temeva più di tutte, la domanda che sarebbe venuta, lo sapeva, che sarebbe venuta e alla quale avrebbe dovuto rispondere.
Ma non erano ancora pronti a fare quella domanda… c’era una tradizione da osservare… una tradizione molto piacevole.
Il corpulento Stephen Andrews, capo del servizio stampa dell’Agenzia Interplanetaria d’Informazione, si schiarì la voce come se fosse stato sul punto di fare un annuncio importante, e poi domandò in un tono grave ch’era ben simulato per produrre un effetto comico:
«E come sta l’erede?»
Un sorriso rischiarò il viso di Webster.
«Tornerò a casa per la fine settimana,» disse. «Ho comprato un nuovo giocattolo per mio figlio.»
Allungò una mano, e sollevò il corto cilindro dalla scrivania.
«Un giocattolo all’antica,» disse. «Antichità garantita… Una società ha cominciato da poco a immetterlo sul mercato. Lo appoggiate all’occhio, e lo girate, e vedete delle immagini bellissime. Pezzi di vetro colorato che cambiano posto continuamente, formando immagini sempre diverse. Il giocattolo ha un nome…»
«Caleidoscopio,» disse uno dei giornalisti, velocemente. «Ho letto qualcosa su questi giocattoli. In un vecchio libro di storia, sulle usanze e i costumi del ventesimo secolo.»
«L’ha già usato, signor presidente?» domandò Andrews.
«No,» disse Webster. «Per dirle la verità, non l’ho ancora provato. L’ho acquistato nel pomeriggio, e sono stato troppo occupato.»
«Dove l’ha trovato, signor presidente?» domandò una voce. «Voglio prenderne uno anch’io per mio figlio.»
«L’ho comprato al negozio che si trova proprio all’angolo. Il negozio dei giocattoli, l’avrete visto anche voi. Sono arrivati oggi.»
E adesso, secondo la tradizione, era il momento di chiudere la conferenza stampa. I giornalisti se ne sarebbero andati. Qualche altro minuto di conversazione amichevole, informale, e poi si sarebbero alzati dai loro posti e se ne sarebbero andati.
Ma non se ne andavano… e lui sapeva benissimo che non se ne sarebbero andati. Se ne rese conto dall’improvviso silenzio e dal fruscio dei fogli mossi per coprire l’improvviso silenzio.
E poi Stephen Andrews gli fece la domanda che Webster aveva temuto. Per un istante Webster fu lieto che fosse stato Andrews a parlare. Andrews era sempre stato un amico, in un certo senso, e l’Agenzia Interplanetaria trattava le notizie con grande obiettività, senza quelle parole tortuose che venivano usate per confondere e intricare le cose dai maggiori esponenti della cosiddetta ’stampa interpretativa’.
«Signor Presidente,» disse Andrews. «Ci è giunta notizia che un uomo, sottoposto a conversione su Giove, è ritornato sulla Terra. Vorremmo chiederle se l’informazione è vera.»
«È vera,» disse Webster, rigidamente.
I giornalisti aspettarono e Webster aspettò, immobile sulla sua poltrona.
«Desidera commentare la notizia?» chiese alla fine Andrews.
«No,» disse Webster.
Webster si guardò intorno, lasciò scorrere lo sguardo sui volti che riempivano la stanza. Volti tesi, che percepivano una parte della verità che si nascondeva dietro il suo reciso rifiuto di discutere l’argomento. Volti divertiti, che mascheravano dei cervelli che perfino in quel momento, così, a caldo, stavano pensando a come distorcere le poche parole che lui aveva pronunciato, a come usarle per dare un tono sinistro al suo discorso. Volti furibondi, che avrebbero scritto degli articoli ’interpretativi’ oltraggiati, sul diritto che il popolo aveva di conoscere sempre la verità.
«Mi dispiace, signori,» disse Webster.
Andrews si alzò pesantemente dal suo posto.
«Grazie, signor presidente,» disse.
Webster sedette sulla sua poltrona e li seguì con lo sguardo, mentre abbandonavano la stanza, e percepì il gelo e il vuoto di quella stanza, dopo la loro uscita.
Mi metteranno in croce, pensò. Mi inchioderanno alla porta del fienile e io non ho nulla con cui rispondere, con cui reagire. Non ho un solo argomento con cui ribattere.
Si alzò dalla poltrona e camminò lentamente attraverso la stanza, si fermò davanti alla finestra, guardò fuori, guardò il giardino che dormiva pigramente sotto il sole del pomeriggio.
Eppure, semplicemente, lui non poteva dire la verità.
Il paradiso! Bastava chiedere e si otteneva il regno dei cieli! E la fine dell’umanità con esso. La fine di tutti gli ideali e di tutti i sogni del genere umano, la fine della stessa razza.
La luce verde si accese sulla sua scrivania e si udì un sommesso ronzio, e Webster si voltò e ritornò al suo posto.
«Cosa succede?» domandò.
Il piccolo schermo si accese e apparve un viso.
«I cani hanno comunicato in questo momento, signore, che Joe, il mutante, si è recato nella sua residenza, e Jenkins l’ha fatto entrare.»
«Joe! Ne è sicuro?»
«È quello che dicono i cani. E i cani non sbagliano mai.»
«No,» disse Webster, lentamente, «No, i cani non sbagliano mai.»
Il viso svanì dallo schermo, e Webster sedette stancamente, pesantemente.
Con dita intorpidite raggiunse il piccolo quadro di comando che si trovava sul piano della scrivania, e formò la combinazione, senza neppure guardare.
La casa apparve, enorme e massiccia, sullo schermo, la casa che si trovava nell’America del Nord e stava appollaiata sulla cima della collina battuta dal vento. Una costruzione che sorgeva lassù da quasi mille anni. Un luogo nel quale una lunga teoria di Webster aveva vissuto e sognato ed era morta.
In alto, nell’azzurro sopra la casa, un corvo stava volando e Webster udì, o gli parve di udire, il richiamo portato dal vento dell’uccello nero che tracciava ampie spirali nel cielo.
Tutto era normale… apparentemente. La casa sonnecchiava sotto il sole del mattino, e la statua sorgeva ancora sul prato… la statua di un antenato morto da tanto tempo, che era scomparso sulla strada scintillante delle stelle. Allen Webster, che era stato il primo a lasciare il Sistema Solare, diretto ad Alfa del Centauro… la stessa destinazione della spedizione che tra un giorno o due sarebbe partita da Marte.
La casa era immota, l’aria era immota intorno alla casa, non c’era alcun segno di vita intorno; l’erba era come raggelata nell’aria senza vento, e la scena pareva fissata per sempre, eterna e immutabile.
Webster mosse la mano e cancellò la combinazione. Lo schermo si spense.
Jenkins può affrontare la situazione, pensò. Probabilmente meglio di quanto possa farlo un uomo. Dopotutto, in quel suo corpo di metallo è racchiusa la saggezza di quasi mille anni, è racchiusa l’esperienza di dieci lunghi secoli. Jenkins mi chiamerà tra poco, per farmi sapere quel che sta succedendo.
La sua mano si mosse di nuovo, e formò una nuova combinazione.
Aspettò per diversi secondi, lunghissimi secondi, prima che il volto apparisse sullo schermo.
«Che c’è, Tyler?» domandò il volto.
«Ho appena ricevuto la notizia che Joe…»
Jon Culver annuì.
«Anch’io l’ho ricevuta adesso. Sto controllando.»
«Che cosa ne deduci?»
Il viso del capo della Sicurezza Mondiale si raggrinzì in un’espressione perplessa.
«Forse comincia a cedere, ad addolcirsi. Abbiamo dato ben poca tregua a Joe e agli altri mutanti. I cani hanno svolto un lavoro davvero di prim’ordine.»