Lisola del drago
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L’Arcipelago di Earthsea ? una terra lontana dove la magia ? ancora potente e capace di sottili e misteriosi incantesimi che legano (o separano) gli esseri umani e dove, talvolta, giungono i draghi per ricordare a tutti che, nella notte dei tempi, non c’era distinzione tra uomo e drago. E a Gont, una delle isole di Earthsea, vive Tenar, una donna che pur essendo stata l’allieva prediletta del potente Arcimago Ogion, ha sorprendentemente rinunciato ai Poteri della magia per condurre una vita tranquilla accanto all’uomo che ama. Ma quel destino che Tenar ha rifiutato non ha mai cessato di albergare nei ricordi, nei pensieri e nei gesti della donna, e ora ritorna a lei sotto forme diverse e inquietanti: una bambina martoriata nel corpo e nello spirito (ma dotata di immani capacit? soprannaturali), un vecchio amico che ha smarrito i Poteri dopo un viaggio nella terra delle Tenebre, l’antico maestro che la chiama per confidarle un segreto che solo lei pu? comprendere. Tornare sul sentiero che pensava abbandonato per sempre non sar? facile per Tenar, eppure solo lei conosce quel luogo dove — fra streghe, draghi, premonizioni e sortilegi — si decider? l’esito della lotta tra il giovane e coraggioso re di Gont e le forze delle Tenebre che hanno scagliato contro l’isola una maledizione letale…
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Con dispiacere capì dalla loro espressione che non avevano ascoltato il nome, il vero nome di Ogion; non le avevano dato retta.
«Oh!» esclamò. «Sono tempi davvero brutti, quando un simile nome non viene ascoltato, quando cade a terra come una pietra! Ascoltare non è più un Potere? Ascoltate, allora: il suo nome era Aihal. Il suo nome di morte è Aihal. Nei canti — sempre che se ne compongano ancora — sarà conosciuto come Aihal di Gont. Era un uomo che parlava poco. Ora non parla più. Forse, non ci saranno più canti, ma solo il silenzio. Non lo so. Sono molto stanca. Ho perso un padre e un caro amico.» Le si incrinò la voce; dalla gola le uscì solo un singhiozzo. Si girò per andarsene, e sul sentiero della foresta vide il portafortuna di Zia Muschio. Allora lo raccolse, si inginocchiò accanto al morto, gli baciò il palmo della mano sinistra e vi posò il piccolo amuleto. Poi, mentre era ancora in ginocchio, guardò un’altra volta i due uomini e disse, a bassa voce:
«Volete occuparvi voi di fargli scavare la fossa qui, dove ha chiesto?»
Prima il vecchio mago, poi quello giovane le rivolsero un cenno d’assenso.
La donna si alzò, si passò la mano sulla gonna e fece ritorno alla casa, ora illuminata dalle prime luci dell’alba.
KALESSIN
«Aspettalo», le aveva detto Ogion, che adesso era chiamato Aihal, un attimo prima che il vento della morte lo scuotesse per staccarlo dal mondo dei vivi. «È finita. Tutto è cambiato», le aveva detto, in un bisbiglio, e poi: «Tenar, aspettalo…» Ma non le aveva detto chi o che cosa. Forse Ogion aveva visto il cambiamento… ma che cambiamento? Che intendesse parlare della propria morte, della vita che lo stava abbandonando? Aveva parlato con gioia, con esultanza. E con le sue parole le aveva conferito l’incarico di rimanere là ad attendere.
«Che altro posso fare?» si chiese Tenar mentre spazzava il pavimento della casa di Ogion. «Che cos’altro ho fatto, in tutta la mia vita?» E, rivolgendosi al ricordo di lui, gli domandò: «Devo attendere qui, nella tua casa?»
«Si», le rispose Aihal il Taciturno senza parlare e le sorrise.
Cosi, lei spazzò la casa, svuotò il focolare della cenere, e portò fuori i giacigli. Gettò via un po’ di terraglia sbreccata e una pentola che perdeva, ma le trattò affettuosamente. Accostò anche la guancia a un piatto con una grossa crepa, prima di buttarlo tra le immondizie, perché era una testimonianza di quanto il mago fosse malato l’anno precedente. Era un uomo semplice, vissuto poveramente come un qualsiasi contadino, ma quando i suoi occhi erano limpidi e aveva ancora tutta la sua forza, non avrebbe mai usato un piatto sbreccato, né avrebbe permesso a una pentola di rimanere con un buco. Questi segni della sua debolezza addoloravano la donna, le facevano rimpiangere di non essere venuta a prendersi cura di lui. «Sarei stata lieta di farlo», disse al ricordo di lui, ma il mago non le rispose. Non aveva mai desiderato che qualcun altro si occupasse di lui: voleva essere sempre in grado di badare a se stesso. Le avrebbe detto: «Non hai qualcosa di meglio da fare?» Tenar non lo sapeva. Ogion rimase in silenzio. Ma adesso era sicura di poter stare nella sua casa.
Prunella e il suo vecchio marito, Rivochiaro, che abitavano nella fattoria della Valle di Mezzo già da prima che lei ci arrivasse, potevano prendersi cura degli animali e delle piante; l’altra coppia che abitava nella fattoria, Tiff e Sis, si sarebbe occupata dei campi. Il resto sarebbe rimasto com’era, almeno per un po’ di tempo. I lamponi di Tenar li avrebbero raccolti i figli dei vicini. Peccato; i lamponi le piacevano. Lassù, sopra il Grande Precipizio, con la brezza del mare che non cessava mai, faceva troppo freddo per coltivare i lamponi. Ma il vecchio pesco di Ogion, nel suo angolo riparato e rivolto a sud, aveva diciotto frutti, e Therru li teneva d’occhio come un gatto che sorveglia un topo, finché, un giorno, la bambina entrò in casa e, con la sua voce roca, disse a Tenar: «Due delle pesche sono tutte rosse e gialle».
«Ah», commentò la donna. Si recarono insieme all’albero, staccarono le due pesche mature e le mangiarono immediatamente, senza sbucciarle, imbrattandosi di succo il mento e leccandosi le dita.
«Posso piantarlo?» chiese Therru, mostrando il suo rugoso nocciolo di pesca.
«Certo. Il posto è buono, vicino all’altro albero. Ma non troppo vicino. Tutt’e due devono avere spazio per le radici e per i rami.»
La bambina scelse un punto e scavò una piccola fossa. Vi collocò il nocciolo e poi lo coprì. Tenar la osservò attentamente. Nel poco tempo trascorso da quando erano andate ad abitare lassù, Therru le pareva cambiata. Era ancora priva di reazioni, senza collera e senza gioia; ma in quei giorni la sua assoluta concentrazione, la sua immobilità si erano quasi impercettibilmente allentate. Therru aveva desiderato quelle pesche. Le era venuto in mente di piantare il nocciolo, di aumentare il numero di pesche che esistevano al mondo. Alla Fattoria delle Querce c’erano solo due persone di cui non avesse paura: Tenar e Lodola; ma a casa di Ogion aveva fatto subito amicizia con Erica, la pastorella di Re Albi, una giovane di vent’anni, un po’ debole di mente ma dalla voce forte e dal carattere dolce, che trattava la bambina come se appartenesse anche lei al gregge, come un capretto zoppo. Tenar non aveva niente in contrario. E non aveva niente contro Zia Muschio, indipendentemente dalla sua scarsa pulizia.
Quando Tenar era giunta a Re Albi, venticinque anni prima, Muschio non era una vecchia fattucchiera ma una giovane strega. Si inchinava davanti alla «giovane signora», alla «Signora Bianca», pupilla e allieva di Ogion, e le parlava sempre con il massimo rispetto. Tenar aveva avuto l’impressione che quel rispetto fosse falso e che nascondesse un’invidia, un’antipatia e una sfiducia che aveva incontrato molte volte nelle donne rispetto alle quali si era trovata in posizione di superiorità, donne che vedevano se stesse come normali e lei come straordinaria e privilegiata. Sacerdotessa delle Tombe di Atuan o pupilla straniera del mago di Gont, lei era distante dalle altre, superiore. Gli uomini le avevano dato il Potere, avevano condiviso il loro Potere con lei. Le donne la guardavano da lontano, a volte con rivalità, a volte con aria leggermente beffarda.
E Tenar si era sempre sentita abbandonata, esclusa. Era fuggita via dai Poteri delle Tombe del deserto, e poi era fuggita dai Poteri delle conoscenze e delle capacità che le offriva il suo tutore, Ogion. Aveva voltato la schiena a tutto questo, era andata dall’altra parte, nell’altra stanza, dove vivevano le donne, per essere una di loro. Una moglie, la moglie di un agricoltore, una padrona di casa, che si serviva dei Poteri che spettavano per nascita alle donne, dell’autorità che le concedeva il mondo.
E laggiù nella Valle di Mezzo, a Goha, moglie di Selce, le donne avevano sempre dato il benvenuto; certo, lei era una straniera dalla pelle bianca, che parlava in modo bizzarro, ma era anche una buona padrona di casa, bravissima a filare, con dei figli robusti e bene educati, e una fattoria ricca: una persona rispettabile. E per gli uomini lei era la moglie di Selce, che faceva quel che doveva fare una donna: letto, figli, torte, minestre, pulizia, filatura, cucito, lavare i piatti e servire in tavola. Un’ottima donna. La approvavano. Selce, dopotutto, non aveva sbagliato, dicevano. Come sarà fatta, una donna bianca? Sarà bianca dappertutto? dicevano i loro occhi, quando la guardavano, finché non raggiunse la mezza età e gli uomini non le badarono più.
Ma ora, nella casa di Ogion, le cose erano diverse. Da quando lei e Muschio avevano vegliato insieme il morto, la vecchia le aveva fatto capire di volerle essere amica, seguace, serva, qualsiasi cosa Tenar le chiedesse. Tenar non sapeva bene in quale veste preferire la strega, che era una donna imprevedibile, inaffidabile, misteriosa, collerica, ignorante, astuta e sporca. Ma Muschio voleva bene alla bambina. E forse era proprio merito di Muschio il cambiamento avvenuto in Therru, quel rilassamento appena percettibile. All’inizio, quando era con la strega, Therru si comportava come sempre: era assente, non reagiva, era docile come può esserlo un oggetto inanimato, una pietra. Ma la vecchia aveva continuato a blandirla, offrendole dolci e altri tesori, pregandola e supplicandola. «Vieni con Zia Muschio, cara! Vieni, e Zia Muschio ti mostrerà la cosa più bella che hai mai visto…»