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Lisola del drago

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Lisola del drago
Название: Lisola del drago
Дата добавления: 16 январь 2020
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Lisola del drago - читать бесплатно онлайн , автор Le Guin Ursula Kroeber

L’Arcipelago di Earthsea ? una terra lontana dove la magia ? ancora potente e capace di sottili e misteriosi incantesimi che legano (o separano) gli esseri umani e dove, talvolta, giungono i draghi per ricordare a tutti che, nella notte dei tempi, non c’era distinzione tra uomo e drago. E a Gont, una delle isole di Earthsea, vive Tenar, una donna che pur essendo stata l’allieva prediletta del potente Arcimago Ogion, ha sorprendentemente rinunciato ai Poteri della magia per condurre una vita tranquilla accanto all’uomo che ama. Ma quel destino che Tenar ha rifiutato non ha mai cessato di albergare nei ricordi, nei pensieri e nei gesti della donna, e ora ritorna a lei sotto forme diverse e inquietanti: una bambina martoriata nel corpo e nello spirito (ma dotata di immani capacit? soprannaturali), un vecchio amico che ha smarrito i Poteri dopo un viaggio nella terra delle Tenebre, l’antico maestro che la chiama per confidarle un segreto che solo lei pu? comprendere. Tornare sul sentiero che pensava abbandonato per sempre non sar? facile per Tenar, eppure solo lei conosce quel luogo dove — fra streghe, draghi, premonizioni e sortilegi — si decider? l’esito della lotta tra il giovane e coraggioso re di Gont e le forze delle Tenebre che hanno scagliato contro l’isola una maledizione letale…

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«Imparerà», commentò Ged.

«Oh, no. Troverà qualche stupida donna che lo farà per lui. Ah!» Si guardò attorno, nella cucina, con aria feroce. «Mi dispiace lasciarle i vent’anni passati a lucidare questo tavolo. Spero almeno che abbia un po’ di riconoscenza!»

Scintilla portò a cena Townsend, ma il sensale non si volle fermare per la notte, anche se, naturalmente, gli venne offerto un letto come si faceva di solito con gli ospiti. Si sarebbe trattato di uno dei loro letti, però, e a Tenar non garbava l’idea: così fu lieta di vederlo andare via, in quella serata di primavera ancora chiara, per recarsi a dormire da certi suoi conoscenti che abitavano nel villaggio.

«Figliolo, domattina all’alba partiremo per Re Albi», disse a Scintilla. «Io, Falco e Therru.»

Scintilla aveva un’espressione allarmata.

«Ve ne andate così, su due piedi?»

«Be’, tu te ne sei sempre andato e venuto così», gli ricordò la madre. «Ora, ascolta, Scintilla; questo è il salvadanaio di tuo padre. Ci sono sette pezzi d’avorio, e le cambiali del vecchio Bridgeman, che non le pagherà mai perché non ha niente con cui pagarle. Questi quattro pezzi delle Andrades vengono dalle pelli di montone che Selce ha venduto per quattro anni al sarto delle navi di Valmouth, quando tu eri ancora ragazzo. I tre pezzi di Havnor ci sono stati pagati da Tholy per la fattoria del Torrente Alto. Avevo detto io a tuo padre di comprare quella fattoria, e l’ho aiutato a rimetterla in ordine e a venderla. Tengo io quei tre pezzi, perché me li sono guadagnati. Gli altri e la fattoria sono tuoi. Tu sei il padrone.»

Il giovane alto e magro rimase immobile e continuò a fissare le monete contenute nella scatola.

«Prendili tutti», disse a bassa voce. «Non li voglio.»

«Non mi occorrono. Ma ti ringrazio, figlio mio. Tieni i quattro pezzi delle Andrades, però. Quando ti sposerai, saranno il mio regalo per la sposa.»

Rimise la scatola al suo posto: dietro il vassoio, nello scaffale più alto dell’armadio, dove l’aveva sempre tenuta Selce. «Therru, prepara tutte le tue cose, perché domattina partiremo presto.»

«Quando ritornerete?» chiese Scintilla, e il tono della sua voce ricordò a Tenar che era sempre stato un bambino fragile e irrequieto. Ma rispose: «Non lo so, caro. Se avrai bisogno di me, verrò».

Andò a prendere le scarpe da viaggio e gli zaini. «Scintilla», lo chiamò. «Puoi farmi un favore?»

Il giovane era andato a sedere vicino al fuoco. Aveva un’aria spaesata e immusonita. «Quale?»

«Scendi a Valmouth, presto, e va’ da tua sorella. Dille che sono ritornata a Re Albi. Dille anche che, se ha bisogno di me, me lo faccia sapere.»

Scintilla annuì. Guardò Ged, che aveva già messo nello zaino le sue poche cose, con la rapidità e la precisione di una persona abituata a viaggiare, e che ora metteva i piatti nella credenza per lasciare in ordine la cucina. Fatto questo, si sedette davanti a Scintilla e infilò una corda nuova negli occhielli della sua sacca, per chiuderla in alto.

«C’è un nodo, che si usa per chiudere», disse Scintilla. «Un nodo da marinaio.»

Ged gli porse la sacca, in silenzio, e guardò Scintilla che, senza parlare, gli insegnava il nodo.

«Tirando va su, vedi?» disse il giovane, e Ged annuì.

Quando lasciarono la fattoria, l’indomani mattina, era ancora buio e faceva freddo. Il sole si alzava tardi, sul versante occidentale del Monte di Gont, e finché non superò la grande massa del massiccio meridionale e non raggiunse le loro schiene, dovettero riscaldarsi camminando.

Therru camminava assai più in fretta dell’estate precedente, ma si trattava pur sempre di un viaggio di due giorni. Nel pomeriggio, Tenar chiese: «Ce la facciamo ad arrivare a Fontana delle Querce prima di sera? C’è una specie di locanda. Ricordi, Therru, ci siamo fermate a bere una tazza di latte».

Ged guardava con espressione assorta il fianco della montagna, sopra di loro. «Conoscevo un posto…» disse.

«Bene», rispose Tenar.

Poco prima della curva da cui si scorgeva Porto Gont, Ged lasciò la strada per inoltrarsi nella foresta che copriva il ripido pendio del monte. Il sole al tramonto illuminava di rosso e di oro le ombre fra un tronco e l’altro e quelle sotto i rami. Salirono per circa mezzo miglio, senza seguire un sentiero riconoscibile — almeno agli occhi di Tenar — e si trovarono su una piccola radura coperta d’erba sul fianco della montagna, riparata dal vento, grazie a una parete di roccia che la chiudeva da un lato, e agli alberi che la circondavano sugli altri lati. A nord si vedevano le vette delle montagne, e, oltre le cime dei grandi abeti, si scorgeva il mare a occidente. Nella radura regnava il più assoluto silenzio, tranne nei momenti in cui il vento soffiava tra gli alberi. Un’allodola di montagna cantò a lungo, dolcemente, tra i rami illuminati dal sole, prima di fare ritorno al suo nido nell’erba non calpestata.

I tre viandanti mangiarono pane e formaggio. Guardarono l’oscurità che saliva sulle montagne a partire dal mare. Poi si avvolsero nei mantelli e dormirono l’uno accanto all’altro. Nella notte, Tenar si svegliò. A poca distanza da loro, un gufo lanciava il suo richiamo: una nota dolce e prolungata, come quella di una campana, e il compagno, dall’alto della montagna, gli rispondeva come lo spettro della sua eco. Tenar si disse: «Voglio vedere le stelle che tramontano nel mare», ma si addormentò subito, in perfetta tranquillità di cuore.

Si svegliò nel grigio del mattino e vide che Ged, accanto a lei, si era messo a sedere, con il mantello ben stretto sulle spalle, e guardava in direzione dell’occidente, nel varco tra gli alberi. Il suo volto scuro era immobile, assorto nel silenzio, come Tenar lo aveva visto tanti anni prima, sulla spiaggia di Atuan. Tuttavia, diversamente da allora, non abbassava gli occhi, ma fissava l’orizzonte illimitato. Seguendo la direzione del suo sguardo, anche Tenar vide giungere il giorno, il trionfo del rosa e dell’oro che si riflettevano su tutto il cielo.

Ged si voltò verso Tenar, e lei gli disse: «Ti ho sempre amato, fin da quando ti ho visto la prima volta».

«Donatrice di vita», rispose lui, chinandosi a baciarla sulla bocca e sul petto. Lei lo abbracciò per un istante. Poi si alzarono, svegliarono Therru e proseguirono il cammino; ma quando raggiunsero gli alberi, Tenar si girò a guardare la piccola radura, come per chiederle di non tradire la felicità da lei provata in quel luogo.

Il primo giorno avevano pensato soltanto al viaggio, ma ora dovevano arrivare a Re Albi. Tenar pensò molto a Zia Muschio, chiedendosi che cosa le fosse successo, e se fosse davvero in punto di morte. Ma con il procedere della giornata, a mano a mano che il villaggio si avvicinava, faceva sempre più fatica a pensare a Muschio, o a qualsiasi altra cosa. Era stanca. Non le piaceva l’idea di rifare quel tragitto verso un moribondo. Arrivarono a Fontana delle Querce, scesero nella valle e poi risalirono. Ma nell’ultimo pezzo in salita, lungo e ripido, verso il Grande Precipizio, Tenar muoveva le gambe con fatica e aveva la mente confusa: pensava a una parola o a un’immagine finché questa non perdeva ogni significato, per esempio l’armadio con i piatti e le tazze, nella casa di Ogion, o le parole «delfino d’osso» (che le erano venute in mente nel vedere il sacchetto di fili d’erba contenente i giocattoli di Therru) e che continuavano a ripetersi all’infinito.

Ged aveva il passo regolare della persona abituata a camminare, e Therru gli teneva dietro, senza difficoltà: la stessa Therru che, un anno prima, era rimasta senza forze poco dopo avere iniziato la salita, e si era fatta portare in braccio. Ma quella volta aveva camminato molte più ore. E non era ancora guarita bene dalle ferite della punizione.

Tenar cominciava a sentirsi troppo vecchia per camminare così in fretta e in salita. Alla sua età, una donna doveva stare a casa, vicino al fuoco. Delfino d’osso, delfino d’osso. L’uomo d’osso e l’animale d’osso. Erano davanti a lei. La stavano aspettando. Lei era lenta e stanca. Risalì a fatica l’ultimo tratto e li raggiunse dove la strada toccava l’orlo del Precipizio. A sinistra c’erano i tetti di Re Albi, che declinavano verso il Precipizio stesso. A destra la strada che saliva al castello. «Da questa parte», disse Tenar.

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