Lombra della maledizione
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Da una grande maestra della narrativa fantastica, pi? volte vincitrice del premio Hugo, un potente racconto di mistero, magia e tradimento. Il destino di un cavaliere, della sua stirpe e di un regno tormentato. Provato nel corpo e nello spirito da una lunghissima prigionia, il comandante Lupe dy Cazaril ritorna nel regno di Chalion, in cui aveva servito come paggio, e viene nominato tutore di Royesse, bella e intelligente sorella dell’erede al trono. Ma quell’occasione di riscatto si trasforma presto in un incubo, poich? Cazaril scopre che a corte proprio quegli uomini che lo hanno tradito ora occupano posti di grande potere. E scopre soprattutto che l’intera stirpe di Chalion ? gravata da una terribile maledizione, che non pu? essere annullata se non con la magia pi? nera…
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Ripulita la piccola moneta d’oro, Cazaril tirò fuori la sacca, che era vuota, lasciò cadere il sottile disco di metallo nella sua bocca di cuoio e indugiò a contemplarne il solitario bagliore, prima di riporre la borsa con un sospiro. Adesso poteva essere derubato dai banditi: aveva di nuovo un motivo per aver paura.
Nell’avviarsi con passo incespicante lungo la strada, indugiò a meditare su quel nuovo fardello, tanto opprimente rispetto al suo peso insignificante, quasi al punto di non valere il rischio. L’oro, la tentazione dei deboli, la stanchezza dei saggi… Cosa rappresentava per quel soldato dallo sguardo ottuso, che aveva mostrato tanto imbarazzo per la propria involontaria generosità?
Cazaril lasciò vagare lo sguardo sullo spoglio panorama circostante. Soltanto sulle rive del lontano corso d’acqua crescevano alberi spogli e cespugli spinosi, scuri come il carbone nella debole luce mattutina. L’unico possibile riparo nelle vicinanze era un mulino abbandonato che sorgeva su un’altura alla sua sinistra, col tetto crollato e con le pale fatiscenti. Tuttavia, giusto per non rischiare…
Allontanatosi dalla strada, iniziò a risalire la collina. Confrontata coi passi montani che lui aveva attraversato appena una settimana prima era soltanto una collinetta, però la salita gli tolse il fiato al punto d’indurlo quasi a tornare indietro. Lassù il vento era più forte, con folate improvvise che agitavano i ciuffi dorati di secca erba invernale. Spostatosi in modo che il mulino lo proteggesse dal vento, Cazaril entrò nell’edificio e salì una scala pericolante che seguiva una parete, sbirciando poi all’esterno attraverso la finestra priva d’imposte.
Sulla strada sottostante, un uomo stava conducendo un cavallo marrone lungo il sentiero: non sembrava uno dei soldati-fratelli, bensì un servitore. Teneva le redini in una mano e un solido randello nell’altra. Possibile che fosse stato mandato dal suo padrone per recuperare la moneta d’oro a spese del vagabondo incontrato lungo la strada? L’uomo superò la curva, scomparendo al di là di essa soltanto per riapparire dopo pochi minuti. Si fermò a fissare il ruscelletto fangoso, girandosi sulla sella per scrutare i pendii deserti, prima di scuotere il capo con aria disgustata e di spronare il cavallo per raggiungere la colonna.
D’un tratto, si rese conto che stava ridendo. Era una cosa che gli pareva strana e poco familiare, un tremito impresso alle sue spalle che non derivava dal freddo o dalla paura. E notò anche un vuoto dentro di sé, una totale assenza di… cosa? D’invidia lacerante? Di ardente desiderio? Sapeva soltanto che non aveva nessuna voglia di seguire i soldati-fratelli, che non voleva più essere uno di loro. Li aveva guardati passare con assoluta indifferenza, come se stesse assistendo a uno spettacolo sulla piazza del mercato.
Per gli Dei, devo proprio essere stanco, pensò, consapevole di essere anche affamato. Mancava però ancora un buon tratto di strada, un quarto di giornata di marcia, prima di arrivare a Valenda, là dove un cambiavalute avrebbe potuto convertire il suo reale d’oro in un gruzzolo di vaida di rame, certamente più facili da spendere. Quella notte, con la benedizione della Signora, forse sarebbe riuscito a dormire in una locanda e non in una stalla, avrebbe potuto comprarsi un pasto caldo, concedersi una rasatura, e soprattutto un bagno…
Cazaril si girò verso l’interno del mulino. Dato che i suoi occhi si erano ormai abituati alla penombra, notò subito la figura che giaceva distesa sul pavimento cosparso di macerie.
Per un momento s’irrigidì, in preda al panico, ma poi si tranquillizzò, constatando che il corpo non si muoveva. Nessun uomo ancora in vita poteva rimanere immobile così a lungo, in quella strana posizione, con la schiena incurvata. A ogni buon conto, lui non aveva paura dei morti. Quanto alla causa di quella morte, però…
Nonostante l’immobilità assoluta dell’uomo, Cazaril raccolse un sasso dal pavimento prima di avvicinarsi. Era un uomo grassoccio, di mezz’età, almeno a giudicare dal grigio misto al bruno della barba curata, sotto la quale il volto appariva tumefatto e violaceo. Che fosse stato strangolato? Ipotesi da scartare, dato che sulla gola non si vedevano segni. I suoi abiti erano sobri e di buona fattura, ma sembravano troppo stretti per lui. La veste di fine lana marrone e la nera e ampia sopravveste senza maniche, bordata d’argento, indicavano che quell’uomo era un ricco mercante oppure un piccolo nobile dai gusti austeri o magari uno studioso pieno di ambizione. Di certo non era un artigiano o un contadino e neppure un soldato, perché le mani, gonfie e chiazzate di porpora e di giallo, non avevano né calli né cicatrici né, soprattutto, mutilazioni di sorta, come pensò Cazaril, lanciando un’occhiata alla propria mano sinistra, cui mancavano due dita, a testimonianza di quanto fosse stolto afferrare una corda da scalata in tensione. L’uomo inoltre non portava ornamenti: nessuna catena, nessun anello o sigillo. Possibile che qualcun altro avesse trovato il corpo prima di lui?
Serrando i denti, si chinò per esaminare meglio il cadavere, un movimento che gli provocò fitte dolorose in tutto il corpo. Le vesti non gli parvero più così strette e l’uomo non era affatto grasso… No, si era gonfiato in maniera innaturale, com’era successo al volto e alle mani. D’altro canto, un corpo in stato di decomposizione tanto avanzato avrebbe dovuto riempire quel mulino di un fetore tale da togliergli il respiro, mentre in quel fatiscente rifugio non si avvertiva nessun puzzo, tranne un sentore di profumo, o d’incenso, misto a fumo di candela e all’odore di sudore stantio.
Spostando lo sguardo sul pavimento di terra battuta, sgombro da rottami, che circondava il cadavere, Cazaril scartò la possibilità che quel poveretto fosse stato assassinato sulla strada e poi trascinato lassù, al riparo da occhi indiscreti. Scorse i mozziconi di cinque candele — blu, rossa, verde, nera e bianca — totalmente consumate, piccoli mucchietti di erbe e di cenere, sparsi un po’ ovunque, e uno scuro ammasso di penne: un corvo morto, col collo spezzato. Una breve ricerca gli permise di trovare anche il ratto morto, con la gola tagliata, che in quel rituale si accompagnava al corvo. Il Ratto e il Corvo, gli animali sacri al Bastardo, il Dio di tutti i disastri fuori stagione: tornadi, terremoti, siccità, inondazioni, aborti e assassini… Hai cercato di farti ubbidire dagli Dei, vero? rifletté. Quello stolto aveva tentato di operare la magia di morte, pagandone poi il prezzo. Ma aveva agito da solo?
Senza toccare nulla, si alzò e fece un rapido giro dentro il mulino e fuori di esso, senza però trovare borse, mantelli o altri oggetti abbandonati. Almeno un cavallo era stato legato all’esterno, sul lato opposto rispetto alla strada, come testimoniavano i mucchietti di sterco ancora freschi.
Sospirando, cercò di convincersi che tutta quella faccenda non lo riguardava. Sarebbe però stato empio abbandonare un morto a marcire senza un’adeguata cerimonia funebre, e soltanto gli Dei sapevano quanto tempo sarebbe passato prima che qualcun altro lo trovasse. Certo, considerato che si trattava di un individuo benestante, prima o poi qualcuno sarebbe venuto a cercarlo: non era il genere di uomo che potesse svanire nel nulla, senza che qualcuno ne sentisse la mancanza, come nel caso di un lacero vagabondo.
Resistendo alla tentazione di tornare sulla strada, ignorando il cadavere, Cazaril si avviò lungo il sentiero che partiva dal retro del mulino, pensando che portasse a una fattoria o comunque a un centro abitato. Stava camminando da pochi minuti quando s’imbatté in un uomo che conduceva per la cavezza un asino carico di fascine di legna, e che stava risalendo il sentiero in direzione opposta alla sua. Arrestandosi, l’uomo lo scrutò con fare sospettoso.
«La Signora della Primavera vi conceda una buona mattinata, signore», lo salutò cortesemente Cazaril, pensando che non c’era nulla di male a usare un onorifico «signore» con un semplice contadino. Non dopo aver baciato i piedi a uomini ben peggiori, nel suo terrificante periodo di schiavitù sulle galee.