Lisola del drago
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L’Arcipelago di Earthsea ? una terra lontana dove la magia ? ancora potente e capace di sottili e misteriosi incantesimi che legano (o separano) gli esseri umani e dove, talvolta, giungono i draghi per ricordare a tutti che, nella notte dei tempi, non c’era distinzione tra uomo e drago. E a Gont, una delle isole di Earthsea, vive Tenar, una donna che pur essendo stata l’allieva prediletta del potente Arcimago Ogion, ha sorprendentemente rinunciato ai Poteri della magia per condurre una vita tranquilla accanto all’uomo che ama. Ma quel destino che Tenar ha rifiutato non ha mai cessato di albergare nei ricordi, nei pensieri e nei gesti della donna, e ora ritorna a lei sotto forme diverse e inquietanti: una bambina martoriata nel corpo e nello spirito (ma dotata di immani capacit? soprannaturali), un vecchio amico che ha smarrito i Poteri dopo un viaggio nella terra delle Tenebre, l’antico maestro che la chiama per confidarle un segreto che solo lei pu? comprendere. Tornare sul sentiero che pensava abbandonato per sempre non sar? facile per Tenar, eppure solo lei conosce quel luogo dove — fra streghe, draghi, premonizioni e sortilegi — si decider? l’esito della lotta tra il giovane e coraggioso re di Gont e le forze delle Tenebre che hanno scagliato contro l’isola una maledizione letale…
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Ma la strega non volle pronunciarsi. «I venti che soffiano qui sul Precipizio sono tanti: alcuni sono buoni, altri maligni. Alcuni portano le nubi e altri il bel tempo, e alcuni portano notizie a coloro che sanno ascoltarle, ma chi non le sa ascoltare non può conoscerle. Che cosa posso sapere io, una vecchia che non ha mai conosciuto gli insegnamenti dei maghi, che non ha mai studiato sui libri? Tutte le mie conoscenze vengono dalla terra, dalla terra buia e tenebrosa. Loro la tengono sotto i piedi, pieni del loro orgoglio. Gli orgogliosi signori maghi. Che cosa può sapere una vecchia strega?»
Doveva essere terribile, si disse Tenar, avere quella donna per nemica. Ed era difficile anche averla per amica.
«Zia», le disse, raccogliendo uno stelo di giunco, «io sono cresciuta fra donne. Solo donne. Nella terra di Karg, a oriente, lontano da qui, ad Atuan. Sono stata portata via dalla mia famiglia quando ero ancora piccola, per divenire una sacerdotessa in un luogo del deserto. Non so come si chiami; noi, nella nostra lingua, lo chiamavamo solo così, ‘il Posto’. L’unico posto che conoscessi. C’erano dei soldati di guardia, all’esterno delle mura, ma non potevano entrare. E noi non potevamo uscire dalle mura. Solo in gruppo, tutte donne e ragazze, con gli eunuchi a custodirci, per allontanare gli uomini.»
«Chi sono, quelli di cui parli?» chiese la strega.
«Gli eunuchi, intendi dire?» Senza accorgersene, Tenar aveva usato la parola nella lingua di Karg. «Castrati», disse.
La strega la fissò per un istante, poi esclamò: «Tsekh!», e fece uno scongiuro. Si morse il labbro, talmente sorpresa da scordarsi dell’irritazione di poco prima.
«Uno di loro è stato come una madre, per me, laggiù… Ma capisci, Zia, io non avevo mai visto un uomo: quando ho visto il primo, ero già donna fatta. Ho visto solo altre donne. Eppure non sapevo che cosa fossero le donne, perché conoscevo solo quelle. Come gli uomini che vivono solo con altri uomini, i marinai e i soldati, e i maghi di Roke… possono dire di sapere veramente che cos’è un uomo? No, secondo me, perché non parlano mai con una donna.»
«Li pigliano e gli fanno come ai maschi delle pecore e delle capre?» chiedeva intanto la strega. «Con il coltello del castratore?»
Il gusto dell’orrore e del macabro, e forse anche una sorta di spirito vendicativo contro gli uomini, aveva avuto il sopravvento sia sulla sua collera, sia sulla ragione. Adesso, l’unico argomento che interessasse a Muschio era quello degli eunuchi.
Purtroppo, Tenar non poteva dirle molto. Comprese di non avere mai dato gran peso alla cosa. Quando era ad Atuan, da bambina, sapeva che c’erano degli uomini evirati; uno di loro le aveva voluto bene come a una figlia, e lei aveva ricambiato l’affetto; poi, Tenar l’aveva ucciso per fuggire. Di lì era poi giunta nell’Arcipelago, dove non c’erano eunuchi, e non aveva più pensato a loro, li aveva lasciati affondare nelle Tenebre come il corpo di Manan.
«Penso di sì», disse, per venire incontro a Muschio e alla sua sete di particolari. «Prendono dei ragazzi ancora giovani, e…» S’interruppe. Smise anche di lavorare.
«Come Therru», riprese, dopo una lunga pausa. «A che cosa serve un bambino? Per usarlo. Per violentarlo, per castrarlo… Ascolta, Muschio. Quando vivevo nel luogo delle Tenebre, era quel che facevano laggiù. E quando sono venuta qui, ho pensato di essermi affacciata alla luce. Avevo imparato le parole vere. E avevo il mio uomo, avevo messo al mondo dei figli, vivevo tranquilla. Alla luce del sole. E proprio alla luce del sole hanno fatto quello… alla bambina. Sul prato, vicino al fiume. Il fiume che nasce dalla sorgente dove Ogion ha dato il nome a mia figlia. Alla luce del sole. Io cerco ancora di scoprire dove posso vivere, Muschio. Capisci quello che intendo dire?»
«Be’…» disse la donna più anziana; e, dopo qualche istante, aggiunse: «Cara, ci sono abbastanza dolori al mondo senza andare a cercarli». Poi, nel vedere che a Tenar tremavano le mani e che non riusciva a spezzare un giunco particolarmente robusto, ripeté: «Attenta a non tagliarti un dito, cara».
Dovettero attendere fino all’indomani perché Ged riprendesse i sensi. Muschio, che era un’infermiera molto brava, anche se terribilmente sporca, riuscì a fargli inghiottire un po’ di brodo. «Chissà da quanto tempo non mangia», disse, «ed è arso dalla sete. Dovunque sia stato, laggiù non devono né mangiare né bere molto.» E, dopo avergli dato un’altra occhiata: «Ma ormai è troppo tardi, secondo me. Si indeboliscono, sai, e non riescono neppure a bere, anche se ne hanno bisogno. Ho visto tanti uomini forti morire così. In pochi giorni, ridotti all’ombra di se stessi».
Tuttavia, con pazienza, riuscì a dargli qualche cucchiaio del suo brodo di carne e verdura. «Adesso vedremo», disse. «Ma è troppo tardi, secondo me. Sta scivolando via.» Lo disse senza rimpianto, forse con soddisfazione. Quell’uomo non era niente per lei; un morto, invece, era un avvenimento. Forse le avrebbero lasciato seppellire quel mago. Quando era morto quello vecchio non glielo avevano permesso.
Ged si svegliò il giorno seguente, mentre Tenar gli stava spalmando un unguento sulle mani. Doveva avere fatto molta strada in groppa a Kalessin, perché la stretta feroce sulle scaglie di ferro del drago gli aveva inciso profondamente i palmi, e anche i polpastrelli erano pieni di tagli vecchi e nuovi. Anche adesso, mentre dormiva, continuava a stringere le mani, come per non lasciare il drago ormai lontano. Tenar dovette aprirgli le dita con la forza, per medicargli le piaghe. E, quando lo fece, Ged gridò e alzò le braccia, come se stesse cadendo. Aprì gli occhi. Lei gli disse qualcosa per rassicurarlo, e Ged la guardò.
«Tenar», disse, senza sorridere. Un puro segno di riconoscimento, al di là di qualsiasi emozione. E Tenar provò un piacere puro — come per un gusto dolce o per un fiore — nel constatare che c’era ancora un uomo che conosceva il suo nome, e che era quell’uomo.
Si chinò su di lui e lo baciò sulla guancia. «Sta’ fermo», gli disse, «e lasciami finire.» Lui obbedì; quasi subito scivolò di nuovo nel sonno, questa volta con le mani aperte e rilasciate.
Più tardi, nell’addormentarsi vicino a Therru, dopo il tramonto, Tenar pensò: non l’avevo mai baciato, prima. E l’idea la lasciò di stucco. In un primo momento si disse che non era vero. Certo, in tutti quegli anni… Non nelle Tombe, ma dopo, quando avevano viaggiato insieme sulle montagne… Sul Vistacuta, quando avevano fatto vela insieme per Havnor… Quando lui l’aveva portata a Gont…
No. E neanche Ogion l’aveva mai baciata, né lei l’aveva baciato. La chiamava figlia, e le voleva bene, ma non la toccava mai, e lei, che era stata allevata come una sacerdotessa solitaria e intoccabile, come un oggetto di culto, non aveva mai cercato il contatto, non aveva mai saputo di averne bisogno. Posava per un istante la guancia o la fronte sulla mano di Ogion, e lui, di tanto in tanto, le passava la mano sui capelli, una volta sola, con molta delicatezza.
Ma Ged non aveva mai fatto nemmeno quello.
Non ho mai pensato a queste cose? si chiese, incredula e stupita.
Non lo sapeva. Adesso che rifletteva sull’argomento, provò per un attimo un forte orrore, un senso di trasgressione, che subito svanì, senza assumere alcun significato. Sulle labbra aveva sentito il contatto con la sua guancia destra, vicino alla bocca, e la pelle asciutta e fredda: solo quella constatazione aveva senso.
Dormì, e sognò che qualcuno gridava il suo nome: «Tenar! Tenar!» e che lei rispondeva con un grido simile a quello di un uccello marino che volava immerso nella luce, al di sopra del mare; ma al risveglio non ricordò il nome da lei gridato.
Ged fu una delusione per Zia Muschio. Continuò a vivere, e dopo un paio di giorni lei lo dichiarò fuori pericolo. Gli portò il suo brodo di carne di capra e di radici e di erbe, facendolo appoggiare contro di sé, circondandolo con il denso afrore del suo corpo, e, una cucchiaiata alla volta, brontolando, gli ridiede la vita. Anche se Ged l’aveva riconosciuta e la chiamava con il suo nome d’uso, e anche se la strega non poteva negare che l’uomo somigliava a quello chiamato Sparviero, avrebbe voluto negarlo. Il nuovo venuto non le piaceva. Le cose erano tutte storte, diceva. Tenar rispettava le intuizioni della strega quanto bastava per essere preoccupata, ma dentro di sé non riusciva a trovare alcun sospetto del genere. Era semplicemente contenta che Ged fosse con lei e riprendesse a poco a poco le forze. «Quando sarà di nuovo lui, vedrai anche tu», diceva a Muschio.